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Estratto dalla tesi di specializzazione in psicoterapia pubblicata nella rivista on-line Quale Psicologia, n. 28


Aerofobia : Come superare la paura di volare


Riassunto.
L’aerofobia è un disturbo d’ansia, in particolare una fobia specifica di tipo situazionale. Le paure tipiche dell’aerofobico si dividono in tre categorie: paure rispetto al velivolo, legate ad agenti esterni, e paure che riguardano la persona. Tra queste ultime: la paura di non sapere come gestire un attacco d’ansia o di panico, di sentirsi male e di aver bisogno di cure mediche, di perdere il controllo delle proprie emozioni e dell’imbarazzo per la brutta figura davanti a sconosciuti.
I sintomi sono: tensione muscolare, irrequietezza, palpitazioni e tachicardie, senso di svenimento, alternanza di vampate di calore e brividi, sensazioni di soffocamento, nausee, vomito, sudorazione, irascibilità, pianto facile, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi).
L’approccio strategico proposto per l’aerofobia, suggerisce degli esercizi di visualizzazione composti da una fase di induzione, una di suggestione, una di visualizzazione, una di ripresa ed un’ultima fase di verbalizzazione e di analisi del vissuto, con eventuali interpretazioni.
Nella fase di verbalizzazione vengono affrontati i significati simbolici personali che il “volo” e la paura di precipitare, “caduta”, possono assumere: il volo conduce “lontano”, “altrove” rispetto ad una realtà abituale e familiare, (paura dello “smarrimento”, necessità di nuovi punti di riferimento e nuovo equilibrio psicologico). La “caduta” può riferirsi a una perdita di potere, pensionamento, fallimento come marito, genitore, professionista, uomo, paura di un “precipitare” ineluttabile e fatale (invecchiamento, impotenza). Cadere significa allusivamente un andare verso la parte “bassa” della personalità: aggressività, odio, irrazionalità, istinto; luogo da cui parte l’autoconsapevolezza e la trasformazione. Da qui l’assunto terapeutico, che l’aerofobico si deve lasciare cadere per rinascere (prescrizione del sintomo e paradosso). La paura, che nasconde il desiderio di volare, può rappresentare il timore di andare oltre se stessi, alla ricerca di una nuova personalità. In un tale contesto il compito del terapeuta è quello di saper cogliere le implicite richieste, per accompagnare la persona verso il cambiamento.


Presentazione
Io imparo ogni giorno cose nuove. Risolvo i miei problemi, ho fiducia nei miei mezzi, miglioro giorno dopo giorno, sono convinto del mio successo. So cambiare.
Queste frasi automotivanti, che a volte ripetiamo a noi stessi sono piccole strategie che usiamo, per affrontare i vari problemi quotidiani. A volte, però, invece di incoraggiarci, finiamo per svalutarci, e vediamo ovunque solo difficoltà e problemi. In tal caso, sviluppiamo una modalità negativa, da “pessimista”, nell’affrontare ogni situazione che ci si presenta. Anche il linguaggio e la terminologia che scegliamo, per raffigurare le nostre difficoltà finiscono per essere viziati dal nostro “negativismo”.
Un esempio: quando qualcuno dice “sono timido” non sta facendo altro che mettere in evidenza un proprio limite, una sua negatività. Dice di sé ciò che non è (non è estroverso, come magari vorrebbe essere). “Sono timido” è un’asserzione che negativizza chi la dice, lo svaluta. Se invece il nostro amico dicesse “sono riservato”, avrebbe ridefinito in positivo lo stesso concetto.
Questa operazione di ridefinizione del significato, in psicologia si chiama ristrutturazione. La mia tesi è che ogni psicoterapia efficace consista in un cambiamento riuscito di questo quadro di riferimento o, in altre parole, del significato e valore che una persona attribuisce a quel particolare aspetto della realtà che, in dipendenza della natura di questa attribuzione, spiega il suo dolore e la sua sofferenza, questa definizione è essa stessa una ristrutturazione che crea una differente realtà Watzlawick (1997).
Ristrutturare significa, quindi, ricollocare lo stesso comportamento in una cornice diversa, togliendogli il suo aspetto negativo, svalutante.
Possiamo dunque asserire che la ristrutturazione è una modalità tipica messa in atto dalle persone creative e “vincenti” che potremmo, semplificando, chiamare gli “ottimisti”.
Un altro esempio. Se dico: “ci metto troppo a leggere un libro”, non faccio altro che sottolineare la mia lentezza, quindi mi svaluto, metto in evidenza una mia negatività. Se invece dico “quando leggo, mi piace approfondire, soffermandomi spesso, riflettendo…ecc” allora ho ridefinito in positivo lo stesso concetto, mettendo in evidenza una mia personale modalità di lettura, riflessiva, di chi le cose ama farle bene.
Quante volte ci lamentiamo del traffico, come se fosse di per se stessa una situazione solo negativa. Potremmo invece riflettere sul fatto che se c’è traffico, vuol dire che la città in cui viviamo è viva.
Usiamo un esempio un po’ più complesso: “purtroppo io sono capace di amare solo in quel modo”. Quante volte ci capita di sentir dire a qualcuno un concetto di questo tipo. Ristrutturandolo suonerebbe così: “mi piacerebbe essere capace di amare anche in un altro modo”.
La ristrutturazione dà alla persona, la possibilità di intravedere nuove possibilità di soluzione al problema, attribuendo ora un aspetto piacevole all’obiettivo che prima era visto come problema. Ed i grandi problemi riguardano sempre i rapporti con le persone: “è mai possibile che ogni volta che incontro quella persona finisce che litighiamo?”. Eccola ristrutturata: “chissà se un giorno riuscirò ad andare d’accordo con quella persona”. Il problema resta lo stesso, ma ora l’obiettivo è più vicino e fattibile e soprattutto, la ristrutturazione operata, rompe il circuito vizioso della ineluttabilità del problema espresso dal complemento di tempo “ogni volta”.
Tutta la nostra vita può essere ristrutturata. Se cambiamo la struttura dei nostri problemi, partendo dal linguaggio e dal modo in cui pensiamo alle situazioni che ci limitano, anche la personalità cambia, ed insieme ad essa la visione che del mondo abbiamo. Questo significa imparare ad essere vincenti. Il nemico da “vincere” è solo un’abitudine mentale che ci fa essere limitati, ristretti, negativizzati, rinchiusi in una vita bigotta e meschina perché umilia e comprime la nostra creatività e voglia di espansione.
Bene, questo discorso introduce il tema del presente lavoro, che vuole essere uno strumento nelle mani di chi ama sperimentare se stesso, utilizzando la propria parte creativa, che trae nutrimento e si alimenta di immagini mentali accuratamente scelte, che servono come autosuggestioni, che la persona creativa si infonde.
La parte iniziale del lavoro affronta il problema della fobia in genere, secondo un approccio di tipo classico. Partendo dalle interpretazioni e dal simbolismo del sintomo, si è cercato di ricreare il senso di questo particolare disagio, e a partire da questo significato sono state suggerite alcune induzioni di rilassamento e successive suggestioni. Le fantasie guidate che ne sono scaturite costituiscono un valido strumento per affrontare il disagio e per stimolare l’aerofobico ad… “alzarsi in volo”. Queste parole non possono essere casuali, infatti, come ben mostra Erickson, quando dice alla paziente frigida di andare a casa e sgelare il frigorifero con cura, il paziente decodifica la metafora in senso terapeutico, e nel far questo, è facilitato dal linguaggio metaforico, che è di per sé creativo, perché fa appello all’immaginazione.
Ecco perché l’induzione ipnotica è il perfetto prototipo di una strategia ben congegnata per la psicoterapia, e costituisce in miniatura una tecnica psicoterapica. Si cura in ipnosi non con l’ipnosi. Essa è la strategia allo stato puro (Gulotta e Petruccelli, 1997).




1. Descrizione e spiegazione della aerofobia

1.1. Il fattore irrazionale
L’aerofobia, o paura di volare (fear of flying), è molto diffusa sia tra chi è costretto a viaggiare spesso in aereo, sia tra chi non ha mai volato e può manifestarsi con diversi livelli di intensità, dal lieve disagio, sperimentato prima o durante il volo, all’ansia acuta, che impedisce di affrontarlo o lo rende un’esperienza terribile per l’individuo.
I sintomi si presentano in maniera più intensa prima dell’imbarco ed in alcune fasi particolari del volo vissute come “più problematiche” quali il decollo, l’atterraggio o in caso di turbolenze, temporali o forte vento. Tutte le fasi del volo possono, comunque, essere vissute con ansia. In base a recenti sondaggi in Italia tra le persone che hanno volato almeno una volta (37% della popolazione) il 33% dichiara di avere paura ed il 10% assicura che non volerà mai più.
Aggiungendo a queste percentuali quelle di chi vola abitualmente ma con difficoltà, e di chi teme il volo, pur non avendo mai volato, la parte di popolazione, che vive l’aereo con più o meno disagio, si aggira attorno al 50%.
L’aerofobia, come il nome stesso indica, è una fobia, vale a dire un timore irrazionale ed invincibile per una specifica situazione che, secondo il buon senso, non dovrebbe provocare timore (Erickson e Rossi, 1983). Il fobico è perfettamente consapevole dell’irrazionalità dei suoi timori che però non riesce a risolvere, né a gestire, e ciò che vorrebbe è dimenticare questa paura ossessiva acuta.

1.2. Dalla visione psicoanalitica a quella cognitivo comportamentale
Secondo l’approccio psicoanalitico la fobia è il prodotto dei meccanismi di difesa dell’ Io che, per così dire, trasferisce, sposta un complesso interiore che causa conflitti e ansia, su un oggetto esterno che il soggetto fobico ritiene sia più facile evitare. Dunque dietro ogni fobia si cela un disagio ben più complesso della semplice paura di qualcosa, un disagio profondo del quale la fobia sarebbe un po’ come la punta di un iceberg. Capiamo allora che una fobia nasce da molto lontano. L’adulto che manifesta un comportamento fobico è stato, con ogni probabilità, un bambino che ha sviluppato disturbi d’ansia trasmessi a loro volta da genitori ansiosi, che hanno comunicato al bambino l’idea del mondo come luogo pericoloso, popolato non sempre da amici, ma soprattutto da nemici minacciosi, dai quali difendersi o scappare.
L’intervento piu’ efficace sulla paura in genere, è strutturato sulla base di uno specifico modello teorico, che cerca di far luce sulla personalità umana, sul suo sviluppo, sul perché in alcuni casi insorgano dei disturbi psicologici, sul come fare per vincerli; si tratta dell’ approccio cognitivo-comportamentale, nato in America all’inizio degli anni ’60. Secondo tale prospettiva esiste una stretta connessione tra i pensieri, le emozioni ed i comportamenti dell’uomo; ciò significa che ogni stato emotivo, ogni nostro comportamento dipende da quello che pensiamo della situazione in cui ci troviamo. Un pensiero quale: “Mi trovo insieme a persone che mi amano e mi proteggono” provocherà nell’individuo emozioni positive, quali la gioia, la tranquillità e stimolerà comportamenti come il sorriso o il gioco; il pensare "morirò, non ce la farò a fare ciò" darà luogo viceversa ad emozioni negative quali ansia, rabbia, tristezza e a reazioni quali il pianto o l'irrigidimento muscolare.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale, agisce sulla cognizione, cioè sul significato che ciascuno attribuisce alla realtà. Poiché l’attribuzione di un significato negativo a un evento scatena emozioni spiacevoli, agendo sull’ampliamento del significato e sulla sua interpretazione in positivo, si interviene indirettamente anche sull’emozione e sul disagio che questa scatena. L’aspetto comportamentale, invece, insegna al fobico a rompere il circolo vizioso tra il sintomo, la paura e l’evitamento.

1.3. Come nasce una fobia
Paura ed ansia sono emozioni che fanno inevitabilmente parte della vita dell’uomo. Esse svolgono per l’essere umano, così come per le altre specie animali, una fondamentale funzione adattativa, in quanto costituiscono lo stimolo che, in situazioni di pericolo per l’animale e per l'uomo, innesca la reazione corporea “di attacco o fuga”; quest’ultima consiste in una serie di rapidi cambiamenti automatici di tipo fisiologico, che hanno la funzione di predisporre l’organismo ad una vigorosa attività, finalizzata sia a proteggersi che a sfuggire alla situazione pericolosa: il cuore inizia a battere più rapidamente del solito, aumentano la tensione muscolare, il ritmo respiratorio, la sudorazione, nonché l’attenzione e la vigilanza.
Paura ed ansia si differenziano in quanto, mentre la prima è scatenata da oggetti, persone o situazioni reali ed identificabili, nella seconda non è possibile individuare ciò che si teme; essa è vissuta come una sensazione di attesa di qualcosa di minaccioso, di spiacevole ma indefinito. Entro certi limiti questo stato di attivazione svolge una funzione positiva e necessaria nella vita dell’uomo: un livello anche piuttosto elevato di ansia risulta infatti funzionale per un adeguato svolgimento delle attività quotidiane, in quanto determina un aumento nella qualità delle prestazioni, rispetto alle situazioni in cui essa è assente. I problemi nascono quando la tensione, l’irrequietezza sono presenti in maniera "eccessiva", diventando pertanto negative ed invalidanti per l’individuo.
E’ questo il caso in cui si sviluppano i “disturbi d’ansia”, un insieme di disturbi psicologici molto frequenti ed in aumento nelle società occidentali; essi si presentano spesso associati tra loro e, come abbiamo detto, sono caratterizzati da sintomi quali aumento del battito cardiaco, del ritmo respiratorio e della sudorazione, contrazione muscolare, sensazione di nodo alla gola ed allo stomaco, di affanno, di confusione mentale. In questi casi sembra che la reazione di attacco o fuga si scateni per qualche motivo in situazioni che non sembrano rappresentare un reale pericolo per l’individuo. Tra i disturbi d’ansia vengono comprese le fobie specifiche e quindi anche l’aerofobia.

1.4. Qualche interpretazione…
Ma perché la fobia deve essere legata proprio ad una certa situazione, o, ad un oggetto specifico? Ci stiamo chiedendo, in altre parole, il significato simbolico di quella fobia, proprio di quella, dell’aerofobia appunto. Le statistiche rivelano che alcuni cominciano ad avere paura dopo eventi della vita particolarmente stressanti o importanti, che hanno richiesto un forte adattamento. E’ il caso per esempio di un lutto in famiglia, di un divorzio, di un licenziamento, della nascita di un figlio. In questi casi la paura di volare in sé non è l’angoscia principale: il volo diventa il catalizzatore di altri timori latenti. E’ possibile, per esempio, che una persona che non ha rielaborato un lutto e che convive con un vuoto profondo consideri insostenibile l’essere sospesi in aria in una condizione che percepisce come vuoto assoluto. Dunque, stiamo riflettendo sui possibili “significati” che il “volo” può avere.
Ci viene subito in mente che il volo, o l’aereo, ci porta lontano, “altrove” rispetto ad una realtà che conosciamo perché ci è familiare. Ecco dunque una domanda che, a questo punto, ci dobbiamo porre: siamo disposti a lasciarci condurre altrove? E, ancora, siamo disposti a “volare alto”? Siamo disposti ad abbandonare metaforicamente i nostri abituali punti di riferimento, le nostre certezze quotidiane, per abbracciare e sperimentare nuove mappe mentali?
Qui, non si tratta insomma solo di volare con il corpo, ma soprattutto con la mente ed il cuore. Un esempio servirà a chiarire meglio questo concetto: se osserviamo un bambino giocare nel parco, possiamo notare che quando si accorge di essere troppo lontano dalla madre (la sua figura di riferimento) inizia a provare una sorta di disagio, di paura. Egli deve poter tornare velocemente da questa, per fare, diciamo così, “rifornimento” di carburante emotivo, o di certezze e rassicurazioni per poter poi “ripartire” nel suo viaggio di esplorazione. E’ la sicurezza di avere “fatto il pieno” di questo affetto che lo porterà lontano.
Come i “viaggi” dei bambini che “partono” nell’esplorazione di parchi e luoghi sconosciuti, anche i viaggi degli adulti implicano il saper fronteggiare la paura dello “smarrimento”, vale a dire un perdersi psichico; il non avere più punti di riferimento cui “aggrapparsi” porta al panico, del quale l’aerofobia può essere considerata una variante.

1.5. Il viaggio interiore
Alcuni timori dell’aerofobico, hanno un segno premonitore in comune: il “rumore”! L’aerofobico è infatti ipervigilante e come tale, sente ogni piccolo ed impercettibile rumore come segnale che qualcosa non va, come la prova che il controllo che vorrebbe avere sul volo e, in definitiva, su se stesso, si sta allentando, e questo lo fa precipitare nello stato di ansia.
Ma cosa in realtà, ci chiediamo, vuole controllare l’aerofobico? In un linguaggio metaforico ed allusivo, proprio della psicologia, possiamo concludere che la paura è quella di una “caduta”, di un “precipitare” ineluttabile e fatale. Ma non si tratta di una banale caduta reale, si tratta invece di un “precipitare” simbolico che allude ad altre cadute, quelle che ci riguardano come persone, ad esempio come mariti o mogli, come genitori, come professionisti, come uomini. Dunque il timore allusivo sottostante alla aerofobia è quello di non essere in grado i affrontare “altre” ed “alte” difficoltà, e non per via di nemici esterni, ma per via del peggior nemico in assoluto: se stessi. Ecco allora il senso di inadeguatezza e di inferiorità che immobilizza e blocca chi ne è posseduto.
Se ci sentiamo inferiori, ciò che dovremmo fare sarebbe proprio “innalzarci”, ma, paradossalmente, è proprio ciò di cui abbiamo maggiormente paura.
Poter “volare” serenamente tra le vicende della vita di tutti i giorni, significa allora sentirsi “all’altezza” della situazione, vale a dire, assumersi la responsabilità delle decisioni “alte” quelle importanti, perché mettono in gioco noi stessi, globalmente, fino alla radice. In tali situazioni, la difficoltà come dicevamo, non consiste nel fronteggiare un “nemico” esterno, sia esso una persona o un oggetto-fobico, ma nel venire a patti con se stessi, con quel mistero racchiuso in ognuno di noi, che rappresenta il nostro valore. Se ci appassioniamo a questo tipo di “viaggio dell’anima”, potremo sperimentare ben altre “vertigini” e “cadute”, ma dobbiamo tenere presente che sarà proprio grazie ad una tale esperienza perturbante, che potremo nascere come individui unici e ben integrati.
Come dicevamo, possiamo solo fare affidamento su noi stessi, e questo, tradotto in un linguaggio psicologico, significa avere il coraggio di guardarsi dentro e di compiere quel magico e meraviglioso “viaggio” che è il viaggio interiore, il viaggio in se stessi, nei meandri della propria anima. Si tratta di un viaggio “vertiginoso” e disorientante, perciò molto rischioso e che implica coraggio ed una guida sicura, cui potersi aggrappare nei momenti di pericolo, ma è un viaggio necessario, poiché permette di conoscersi e di valorizzare tutte le nostre potenzialità inespresse, o peggio, represse.
La repressione conduce ad una sorta di “disarmonia” dentro la persona la quale avverte, diciamo così, un “rumore” al suo interno, qualcosa di disturbante. Questo “rumore” è pronto a saltar fuori ogni volta che se ne presenta l’occasione, ma ciò ci dà proprio la possibilità di ascoltare la sua voce che in quei momenti si rende maggiormente udibile. Dunque è nel momento in cui il rumore prende il sopravvento e siamo in preda ad una “vertigine”, nel pericolo e nella fobia, appunto, che ci viene data l’opportunità di occuparci di noi stessi, del nostro dolore mai del tutto espresso e che costituisce quel rumore di fondo che permea e rende disarmonica la nostra vita.
Permettetemi ora di condurvi immaginariamente dentro il nostro aereo, siamo in volo. Il primo suggerimento pratico che vorrei darvi è questo: concentratevi sul fatto che l’aereo, questo prodigio della tecnica, è un mezzo straordinario, che è stato concepito e realizzato da menti geniali, per risolvere i nostri problemi, non certo per crearli! Dunque non sussiste nessun motivo per pensare all’aereo come ad un “nemico” che ci fa paura e dal quale dovremmo difenderci, evitandolo a tutti i costi, ma in realtà esso è un nostro alleato, un amico. Insomma, è dalla nostra parte. Ora, se ciò non dovesse bastare per convincervi della “benevolenza” e della “simpatia” di questo nuovo amico, vi suggerirei qualche esercizio.
Cercate di salire in aerei da esposizione, che non volano, ma che sono del tutto simili a quelli veri. Familiarizzate con l’arredamento interno, prendete contatto con l’ambiente, accomodatevi pure su qualche poltrona e notate quanto sia comoda e confortevole.
Adesso siete pronti per fare un breve viaggetto di non più di un’ora, tenendo presente che un’ora di “angoscia” può essere sopportabile, considerati i benefici che ne trarrete. E ricordate sempre che l’aereo è nato per voi, per permettervi di realizzare il vostro sogno, esso è un miracolo del nostro tempo, uno dei privilegi di cui solo i contemporanei possono godere.
Se ancora non siete rilassati, allora è venuto il momento di imparare qualche buona tecnica di rilassamento e di visualizzazione. Mettetevi comodi sulla vostra poltrona fate un bel respiro e chiudete gli occhi. Immaginate di essere dolcemente sollevati da una mano benevola che vi alzerà con cura, per portarvi “lontano”, in un mondo fatto di “sogni” dove potrete rilassarvi perché lei, la mano, sarà sempre lì con voi, pronta a sostenervi…
Auguri e …buon viaggio!


2. Le paure dell’aerofobico

2.1. Le paure più diffuse
Tenterò di fare adesso una lista di paure che comunemente affliggono una piccola parte dei passeggeri di un aereo, ma soprattutto la maggior parte di coloro i quali su di un aereo rinunciano a salire.
Tra le paure più diffuse, possiamo annoverare certamente queste: la paura che l’apparecchio possa precipitare, la paura che possa scoppiare o incendiarsi, la paura che possa essere colpito da un fulmine la paura che possa scontrarsi con un altro aereo, la paura più recente di un attacco terroristico, la paura della propria paura, di non sapere cioè come gestire un attacco d’ansia, la paura di un attacco di panico, la paura di impazzire, la paura che un uccello di grosse dimensioni possa urtare e rompere un motore dell’aereo, la paura di una grossa turbolenza, la paura che l’aereo sia sovraccarico, la paura di sentirsi male e di aver bisogno di cure mediche, la paura di cedimenti strutturali del velivolo.

2.2. Significati simbolici
Ora, alla base di tutte queste paure, naturalmente la lista potrebbe essere illimitata, c’è una paura più profonda e radicata, direi quasi “esistenziale”. Tale paura “ultima” la potremmo definire proprio paura di “volare”. Ho volutamente messo fra virgolette questo termine, per indicare che esso allude a qualcos’altro, a qualcosa cioè di più ampio e profondo che va oltre il significato che usualmente gli diamo. Questa parola, volare, che noi tutti utilizziamo qualche volta nel linguaggio corrente, in un linguaggio psicologico, rimanda a tutto ciò che il volo rappresenta, ed in ultima analisi, alla capacità stessa che abbiamo di volare. Ma, volare dove? Da cosa? Con chi? Quando? E’ a questo punto che ci accorgiamo di trattare il termine volare come se appartenesse ad un sogno… lo stiamo cioè interpretando ed ampliando. Volare allora può rappresentare un modo di andare oltre noi stessi, al di là di come ci percepiamo. Un desiderio legittimo che sottende la voglia di cambiare, di trasformarci in qualcosa di diverso. Potremmo rendere il concetto con la frase: volare via da se stessi, alla ricerca di una nuova personalità.

2.3. Capovolgiamo le cose: la paura di cadere
L’aereo può dunque simbolicamente rappresentare uno strumento che l’inconscio utilizza per “salire” per “ascendere” in quel luogo psichico in cui ci sentiamo come se riuscissimo a guardare tutto un po’ più dall’alto, con il dovuto distacco. Inoltre, “sopra” ci sono i “piani alti” della nostra psiche, cioè tutto ciò che è puro, vale a dire logica e razionalità, mentre i “piani bassi” sono rappresentati dalle impurità delle pulsioni, dall’istinto.
Iniziamo adesso a capire come il sintomo della paura di volare, possa rappresentare allusivamente e metaforicamente la soluzione ad un nostro problema più ampio e radicato: la paura di “cadere” in situazioni difficili, o, anche, la paura di non trovare un equilibrio all’interno della nostra vita. Insomma il mondo sembra girarci intorno e noi vacilliamo, siamo senza punti di riferimento, la terra sotto i nostro piedi frana….o non c’è proprio! Dove si va in questi casi? Ci si deve lasciare cadere.
Cadere ci consente di andare in basso, vale a dire nei luoghi in cui la nostra mente ha paura di avventurarsi. Sono i luoghi dell’aggressività, della paura, dell’odio, e di tutte quelle emozioni scomode ed ingombranti che vorremmo far sparire per sempre dalla nostra vita. Ma quando abbiamo paura di qualcosa, è proprio lì che dobbiamo andare, in mezzo alla paura stessa, ovvero nel luogo della paura, perché è la paura che ci salva la vita, facendoci ascoltare ciò che siamo abituati a dimenticare...
Come al solito, lasciatevelo dire, la psicologia ed in particolar modo la psicoanalisi, è abituata a ribaltare le cose. Mi spiego. Se il sintomo (la paura di cadere) ha come obiettivo quello di farci precipitare verso il basso, vuol dire che la parte inconscia, che è poi la parte “saggia” della nostra mente, ha intuito una possibile via di soluzione ai nostri problemi. La soluzione è proprio lasciarsi cadere!
Cadere, può significare salvarsi la vita, una vita probabilmente ormai irretita in schemi rigidi e stereotipati che ci costringono, ad esempio, in un lavoro ripetitivo e poco soddisfacente, oppure, peggio, in una relazione piatta e poco creativa con la persona o le persone che ci circondano.
Per fortuna, quando siamo in trappola, una “caduta” può farci uscire dalla situazione di stallo nella quale ci troviamo.
L’aereo è dunque il “luogo delle cadute”. Il luogo psichico nel quale è possibile attuare quel capovolgimento di cui parlavamo. Lì e solo lì, la mente diviene come il terreno che viene arato, messo sottosopra, in modo da offrire più risorse ai nuovi progetti esistenziali. Pertanto, il luogo della paura è anche il luogo delle trasformazioni, il luogo delle rinascite.

2.4. La rinascita

Parlare di rinascita significa, in termini psicologici, non cercare di opporsi al disagio che in quel preciso momento ci assale, ma accoglierlo e soprattutto accettare la situazione di disorientamento e di incertezza nella quale il disagio ci getta. In tale situazione, le forze creative della mente vengono quantomai attivate, infatti, la creatività è una modalità di entrare in contatto con la parte “vera” di noi stessi, andando ad attivare tutti quegli aspetti di noi stessi dei quali neanche sospettavamo l’esistenza.
Ecco perché si cambia. Si cambia quando lasciamo che il disagio, la fobia ed il malessere, passino attraverso di noi senza opporre resistenza, ma maturando, pian piano, un atteggiamento di serena e paziente accettazione che è la base per fare esplodere dentro di noi tutte quelle risorse che sono sopite e nascoste nel nucleo più profondo della nostra personalità.
Capiamo allora, che ogni volta che noi combattiamo un sentimento negativo, finiamo per rafforzarlo, quando invece lo facciamo accadere dentro di noi con l’intenzione di osservarlo soltanto, allora succede qualcosa di diverso, perché in quel momento non stiamo più giudicando, ma stiamo accettando. Accettare la paura che ci assale significa, in fondo, volersi bene, poiché ci stiamo occupando di una nostra parte debole, forse bambina, che attende solo di essere amata per poter crescere. Ma attenzione, i tempi della crescita sono strettamente individuali, e sarebbe un vero e proprio delitto psichico confondere i nostri tempi con quelli di un altro, o peggio ancora con i tempi del collettivo.
Quando è il panico che ci assale, il corpo attraversa una serie di esperienze soggettive devastanti. In quei momenti si è soli, poiché nessun compagno di viaggio potrà condividere quello che ci sta succedendo. Se ci prenderemo cura in maniera affettuosa delle nostre paure, cercando di capire fino in fondo, di quale disagio ci stanno parlando, di quali potenzialità nascoste ci ricordano l’esistenza, la sofferenza dell’anima può subire un vero processo di trasformazione.
Trasformarsi non significa cancellare ciò che di fastidioso c’è nel disagio, significa piuttosto imparare a guardare al disagio da una nuova prospettiva, che non è la prospettiva dell’Io, quella parte logica e razionale della mente, ma è la prospettiva del bambino interiore che da piccolo giocava al girotondo ed attendeva con gioia il momento più bello, quando ad un tratto, qualcuno gridava …”tutti giù per terra!”.
Sicuramente qualcuno dei lettori, a questo punto, potrà sorridere. Direi che è già un buon punto di inizio. Ora, questa evocazione infantile mi permette di suggerirvi qualcosa di pratico, un esercizio da svolgere a casa (ricordate queste espressioni scolastiche?). Bene, si tratta di posizionarsi in piedi sul bordo di un materasso, meglio se matrimoniale, con i piedi dalla parte della spalliera e verso l’angolo del materasso stesso. Dopodiché lasciatevi andare, cedete, cedete pure al panico, immaginate di precipitare, lasciandovi invadere dalle sensazioni che affiorano spontaneamente; probabilmente riderete. Se non riuscite a lasciarvi andare da soli, potete chiedere aiuto al partner o ad un amico che provvederà a tenervi per mano durante la caduta.
Quando con la pratica sarete diventati degli esperti, potrete applicare qualche variante all’esercizio, come chiudere gli occhi o essere bendati, o ancora al buio… beh, lasciate funzionare la vostra fantasia.
Sono stati ideati molti esercizi di questo tipo che mirano a sviluppare un senso di fiducia nell’altro che al momento del bisogno saprà sostenerci e contenerci.
Il problema di molte persone che soffrono di fobia, è proprio avere questa fiducia negli altri. Chi non ha mai sentito parlare dell’ansia genitoriale verso un figlio che rientra tardi la sera? Non è un problema di fiducia?
Come avrete capito, in questa ottica, la fobia non andrebbe “vinta”, essa infatti non è un nemico che ci impedisce di vivere, ma è per noi l’occasione che abbiamo di ascoltarci un po’ di più, di prendere in considerazione i sussurri dell’anima. E questi sussurri ci parlano di noi e della nostra “sfiducia”. Mi piace virgolettare anche questo termine perché in psicologia abbraccia un territorio semantico molto più vasto del significato letterale che comunemente gli diamo.
Si tratta della fiducia in un mondo popolato da persone, che potenzialmente potrebbero diventare nostri amici. La fiducia nel prossimo nasce e si sviluppa nel rapporto del bambino con la propria madre, un rapporto molto esclusivo, che è la base ed il prototipo dei successivi rapporti…compreso quello con i mezzi di trasporto …l’aereo!


3. Approccio strategico alla aerofobia

3.1. Passo dopo passo verso il “drago”
Chiediamoci allora quale è la prima difficoltà che incontra chi inizia a caldeggiare l’idea di dover salire su un aereo ma sente che questo compito è più grande di lui.
La prima difficoltà consiste nell’avvicinarsi concretamente al luogo in cui si trova il “mostro” ovvero l’oggetto della fobia: l’aereo. Così, armati di pazienza e con una buona dose di audacia, muoviamo i primi passi verso il “mostro”, che nella mitologia classica assumerebbe le sembianze di un drago, e per dirla con una metafora moderna sarebbe un alieno!
Mentre ci muoviamo verso il nostro incubo peggiore, facciamo caso a quali possono essere le emozioni che affiorano. La prima sensazione ad emergere potrebbe essere uno stato di tensione crescente e di allerta del corpo, con conseguente nodo in gola, leggera sudorazione, aumento significativo del battito cardiaco… ed altri piccoli eventi psico-fisici annessi. Bene, non dobbiamo assolutamente cercare di sminuire nessuno di questi sgradevoli eventi. Se stiamo andando verso il drago, dobbiamo prepararci ad una lotta e se il cuore sta accelerando il suo ritmo, è perché si sta preparando al meglio ad affrontare una battaglia impegnativa. Ma perché dobbiamo combattere? Contro chi? In vista di quale conquista?
Per rispondere a queste domande, bisogna tornare al concetto di paura. L’effetto della paura è alienante, ci fa sentire spaesati, disorientati, “spiazzati”. La paura ci rende inquieti sospendendoci tra due opposti mondi: quello della razionalità, della logica che è un mondo prevedibile e conosciuto, e quello dell’irrazionale, cioè il mondo dell’inconscio del quale sappiamo ben poco. La paura dunque ci porta dalle parti di questo sconosciuto, dello straniero che abita in noi. E’ per questo che essa diventa una nostra preziosissima alleata.
Quando ci si avvicina all’altra parte di noi stessi, la parte oscura, ci troviamo esposti ad un effetto perturbante, poiché i due registri del reale e dell’immaginario si sovrappongono per buona parte e la linea di confine tra reale e irreale si fa labile: emerge il “surreale”. La paura è dunque surreale in quanto ci parla di un mondo diverso e sconosciuto all’Io cosciente, ci parla di un mondo organizzato secondo regole incongrue e paradossali che deformano la logica del reale. E’ questo il momento in cui si mostrano quelli che Freud chiamava i “fantasmi” o, per dirla con un linguaggio antico: “hic sunt leones”. Iniziamo ora a capire che quel “mostro” si trova in fondo a noi stessi e rappresenta appunto l’altra parte di noi stessi.
E’ per questo che non dobbiamo mandare via la paura, né dobbiamo combatterla, dobbiamo invece comprenderla, capirla, dotarla di significato, considerandola come l’occasione che il nostro inconscio ci dà per contattare l’altra parte di noi stessi. Fino a che non saremo entrati in contatto con l’aspetto inconscio della nostra personalità, saremo sempre vittime della paura e della coazione a ripetere che ci mostrerà una realtà popolata di mostri, assurda, ostile, indecifrabile perché allontanata da noi. La paura non viene mai da ciò che si trova di fronte ai nostri occhi, da ciò che sta fuori da noi, ma da ciò che sta dentro di noi. Perciò ci perseguita, perciò ritorna. Gli psicanalisti chiamano questo fenomeno il ritorno del rimosso, di qualcosa che alberga nelle profondità dell’animo. Da quel lontano passato, “il nemico” si avvicina, ritorna. Non possiamo liberarcene “uccidendolo”, facendolo fuori, ma solo contattandolo e cercando di comunicare con lui, per venirne a patti. L’ascolto diviene necessario.
Ora, ascoltare l’inconscio, significa tuffarsi metaforicamente e concretamente in tutte quelle esperienze che attraverso la paura ci avvicinano alla parte oscura e misteriosa di noi stessi. Significa, ancora, imparare a giocare con il mostro ovvero con l’angoscia e la paura. Il gioco infatti è formativo in quanto crea una realtà fittizia che prepara a quella vera. Giocare, per noi significherà immaginare tutto ciò che è connesso alla nostra paura. L’immaginazione diventa per noi l’opportunità di ricreare con gli occhi della mente, una realtà verso la quale dobbiamo avvicinarci se vogliamo modificarla.
E’ questa una delle tecniche utilizzate da Milton Erickson (Milton Erickson e Rossi, 1985) quando tratta il caso di un paziente con la fobia degli edifici alti, al quale viene dato il compito di abituarsi gradualmente all’idea di camminare davanti ad alti edifici a distanza sempre più ravvicinata. Quello che vi propongo io, adesso, è una serie di situazioni via via più stressanti, che culmineranno nel cuore della paura stessa. Accanto a queste immagini mentali, vi suggerirò delle “fantasie guidate” che avranno il compito di alleviare un po’ la tensione scaturita dall’evento stressante immaginato.
Bene, cominciamo.
Immaginate di aver preso la decisione di salire su di un aereo per fare un piccolo viaggio che durerà solo un’ora.
State andando verso l’aeroporto, la paura è quella di avvicinarvi ad un luogo che rappresenta l’origine stessa di una vostra antica paura: è la paura della paura, un pò come tornare sul luogo del delitto. Vi sentite agitati, non sapete se sarete all’altezza del compito, avete paura di non farcela. Non cercate di mandare via queste sensazioni che affiorano, anzi cercate di coglierne ogni differente sfumatura, se necessario amplificatele per poterle descrivere chiaramente.

3.2. Immagini mentali per il rilassamento: metafora del mare agitato (estratto)
Vi suggerirò adesso una serie di immagini mentali che possano accompagnarvi attraverso un percorso di consapevolezza e presa di coscienza del problema, per poi cercare qualche soluzione utilizzando la metafora stessa del racconto immaginativo. Il passo iniziale sarà quello di creare dentro di sé una situazione di distensione e di rilassatezza. A tale scopo serve la seguente induzione di rilassamento:
…sistematevi comodamente.
Mentre siete seduti concentrate la vostra attenzione su di un punto immaginario o reale della parete.
Fissate intensamente il vostro punto.
E mentre vi concentrate sul vostro punto e potete ascoltare le mie parole e potete sentire i rumori che provengono dall’esterno, vi rendete conto che qualcosa dentro di voi sta cambiando.
E mentre qualcosa in voi sta cambiando e fate caso alla sensazione dei vostri piedi che toccano per terra, vi potete rendere conto che il respiro va divenendo più calmo e regolare. Come il flusso e il riflusso del mare.
Le vostre palpebre diventano pesanti, piacevolmente pesanti. I vostri occhi ammiccano; sono lacrimosi e stanchi; desiderano chiudersi, provate piacere a chiuderli. Chiudete pure gli occhi.
E rilassatevi ancora, sempre di più.
Mentre vi rilassate, potete sentire la sensazione degli occhi chiusi, potete sentire il peso del corpo sulla poltrona, il contatto dei piedi con il pavimento.
La sensazione dei vestiti sulla pelle.
E ad ogni respiro vi rilassate sempre di più.
Vi lasciate cullare in questa sensazione simile al sonno.
Potete immergersi profondamente in questo stato di rilassamento che cercate, con la massima sicurezza.
Ed ora potete apprezzare e gustare le sensazioni gradevoli che provate.
Immaginate ora che ogni vostro timore, ogni preoccupazione e paura sia come un mare agitato, anzi, che “diventino” quel mare.
Mettete quindi nel mare ogni vostra inquietudine ed entrate voi stessi nella scena.
Osservate attentamente la costa.
State passeggiando lungo la riva del mare, il cielo è buio; ci sono delle nubi minacciose in lontananza che preannunciano una tempesta.
Il vento aumenta e le onde si infrangono contro gli scogli con sempre maggiore forza. Osservate con attenzione l’acqua minacciosa, essa è come la vostra preoccupazione che minaccia di inghiottirvi.
Mentre state sprofondando in questi pensieri, affiora dal profondo di voi stessi una piacevole sensazione, che forse tutto si sta calmando.
Il mare perde la sua impetuosità e lentamente si calma, il frastuono che le onde producevano va affievolendosi lasciando il posto ad un gradevole suono un fascio di luce filtra attraverso le nuvole che si diradano, giunge fino al mare dando un colore bello e vivo alle acque.
Il cielo si rischiara sempre di più ed il sole comincia ad inondare tutto di luce, le acque si calmano fino a diventare una distesa limpida. Entrate adesso in contatto col vostro corpo.
E’ piacevolmente riscaldato dal tepore del sole.
Sdraiatevi sulla sabbia e percepite la tranquillità del momento.
Vi sentite riposati, calma e benessere si diffondono per tutto il corpo.
Avete voglia di assopirvi sotto un cielo ormai perfettamente sereno.
Ora tutto è silenzio, tutto è pace intorno a voi e dentro di voi.

3.5. Fantasia guidata dell’albero radicato (estratto)
Bene, proseguiamo adesso il nostro ipotetico viaggio verso l’aeroporto.
Di fronte a voi immaginate il luogo in cui prendono corpo timori, perplessità, paure. Vi sentite inadeguati, spaesati, avete la sensazione di svenire e di essere “sradicati” dalla realtà, come se la paura vi spazzasse via letteralmente.
Concentratevi e seguitemi in questa seconda fantasia guidata che chiameremo albero radicato.
Immaginate di trovarvi in un bel giardino durante una splendida giornata. Il sole inonda con la sua calda luce ogni cosa.
Davanti a voi si erge maestosa una enorme quercia secolare tra alberi lussureggianti sullo sfondo.
Avvertite una sensazione di benessere, mentre l’aria fresca e profumata penetra nei polmoni dandovi salute e vigore.
Vi concentrate sulla maestosità della quercia, osservate attentamente la grandezza delle radici che sporgono propagandosi per un lungo tratto tutto intorno al tronco, fino ad affondare saldamente nel terreno.
Potete chiaramente percepire la sensazione di robustezza e di radicamento che l’albero vi infonde.
Il tronco è enorme, si slancia maestoso verso l’azzurro del cielo sereno.
Può affrontare qualsiasi avversità, è completamente stabile e sicuro, forte e sano, solido e robusto.
La chioma è enorme e verdissima e l’intera figura vi fa sentire forti e sicuri rispetto ad ogni emotività.
Potete assaporare appieno la sensazione di energia e di ottimismo che questa immagine vi trasmette.


4. Senso e contenuto delle immagini

4.1. Il significato delle immagini
Bene, l’immagine dell’albero radicato è molto utile quando sentite di essere sopraffatti da un’emozione troppo forte che vi fa perdere il controllo di voi stessi. Il valore simbolico di questa immagine, rimanda alla forza dell’Io e alla stabilità della personalità.
E’ bene ricordare che le fantasie guidate, cioè le immagini che possiamo suggerire alla nostra mente in uno stato di concentrazione, servono ad indurre in noi determinati “vissuti”, e tali immagini possono essere personalizzate. Perciò vorrei invitarvi ad usare la fantasia e a creare le immagini che più vi piacciono scoprendo di volta in volta quelle che più soddisfano le vostre esigenze.
Quando deciderete per vostra iniziativa di salire su un aereo, vi troverete ad attraversare una serie di situazioni obbligate: fare il check-in, superare i tanti controlli e salire infine sull’aereo. Poi c’è tutta la fase del decollo, della crociera e dell’atterraggio. Per ognuna di queste fasi la vostra mente potrà trovare da sola le immagini più appropriate. Tenete presente che spesso vi troverete a partire da una situazione angosciosa per poi superarla e scoprire una sensazione di distensione e liberazione.
La fantasia guidata che segue può essere applicata e sviluppata quando compiamo qualcosa che simbolicamente rimanda al nostro sviluppo interiore, quindi alla nascita e alla crescita. Ogni volta che scopriamo dentro di noi delle risorse e delle potenzialità insospettate, è come se rinascessimo a nuova vita perché siamo in grado di fare delle cose nuove che neanche immaginavamo prima. E’ questo il fine della prossima visualizzazione.

4.2. Immagine del guscio generativo (estratto)
Immaginate di immergervi nel buio più intenso, avvolti dall’oscurità senza alcun palpito di vita. Tutto è fermo ed immobile… senza vita.
Il buio è totale, il silenzio assoluto.
Immaginatevi immobili, senza avvertire alcuno stimolo, senza avere alcuna forma.
In questo guscio nero, in questa situazione, non avete alcuna tensione, siete fermi ed immobili da sempre.
Persino il sangue non circola… il cuore non batte…
la vostra mente non pensa… ed il corpo non avverte alcuna tensione.
Ora fate un respiro profondo.
Le energie latenti cominciano a sprigionarsi, sentite il sangue circolare all’interno del vostro organismo… il cuore battere… e i pensieri inondare la vostra mente.
Vi sentite come risvegliati da un sonno eterno e cominciate anche ad avvertire dei piccoli movimenti interni.
Qualcosa si muove, pulsa ed avvertite i muscoli sempre più tonici.
Incominciate a muovere con un po’ di fatica ma sempre con maggior sicurezza le vostre braccia… ed ora le gambe… ed ora il corpo, come per cominciare a rompere quel guscio in cui siete rimasti avvolti da sempre.
Fate altri respiri profondi!
I movimenti si fanno più chiari e precisi, il guscio comincia a rompersi!
Ma siete voi che per la prima volta tentate di romperlo.
E cominciate a vivere.
Ed ecco che filtra in questo guscio nerissimo un timido raggio di luce; allora acquistate maggiore energia e premete con tutte le vostre forze contro le pareti buie dell’involucro ed uscite.
La luce vi colpisce per la prima volta ed all’inizio con fatica, ma poi con sempre maggiore sicurezza vi ergete in piedi.
Avvertite alle vostre spalle come delle piccole ali che vi sollevano in alto verso la luce. Volate in alto, verso il sole!
Inondati dalla luce sentite il sole e il calore penetrare in tutto il vostro corpo.
Potete ammirare la natura che si stende sotto di voi e potete avvertire il rumore del vento… Potete sentire l’odore del muschio… il gorgogliare delle acque, i ruscelli i boschi, il canto degli uccelli.
Siete felici perché siete nati!
E siete voi che volete vivere, che volete salire in alto, in alto, verso la luce. E volate, volate ancora avvertendo una piacevole sensazione di rigenerazione.

4.3. Commento all’immagine del guscio generativo
Ho voluto proporvi questa fantasia guidata perché vi rendiate conto che una fobia non è solo una irrazionale paura che impedisce e ostacola un comportamento. Essa è molto di più. Se letta in chiave simbolica, diventa proprio come quel guscio nero impenetrabile dal quale nulla può uscire, nemmeno uno spiraglio di luce. E’ una sorta di buco nero dell’anima che risucchia tutta l’energia creativa, relegando l’individuo in una prigione che non costringe solo il corpo, ma anche lo spirito, la sua libertà.
Sapersi calare ed immergersi nella fantasia e nell’immagine che ne scaturisce, significa già attivare delle risorse interiori per uscire dal buco nero della psiche. Infatti mentre siamo immersi e concentrati nella scena che la fantasia crea per noi, la metafora inizia a “lavorare” aprendo quello spiraglio di luce che prima era inimmaginabile. La nostra mente è abituata a pensare per immagini, a convincersi grazie alle immagini, a sognare con esse. “Un’immagine vale più di mille parole” è un detto che non si addice solo ad un insegnante di statistica o di matematica, ma è appropriato anche a chi, come noi, vuole sfidare se stesso, puntando sull’autotrasformazione.


5. Autorealizzazione e capacità creativa

5.1. Esprimere se stessi
Siamo giunti all’ultimo conclusivo passo del nostro viaggio (dovrei dire volo) verso la meta più ambita: noi stessi. Cercherò ora di focalizzare ed approfondire il discorso su quell’istinto presente in ognuno di noi ma spesso sopito, che è il primo responsabile del cambiamento: l’istinto all’autorealizzazione.
Ognuno di noi è proteso verso la piena realizzazione delle proprie potenzialità ed in genere si soffre quando non riusciamo ad esprimere quello che siamo veramente. Ciò accade perchè spesso non siamo consapevoli delle nostre più autentiche aspirazioni, dei nostri inconsci progetti, di ciò che alberga nel nostro animo. In genere ci vuole molto tempo, quasi una vita, prima di trovare la strada per esprimerci in tutta la nostra capacità, ma ciò che abbiamo a disposizione sono, direi, piccoli indizi, delle tracce che ci parlano di quei progetti nascosti o calpestati, inespressi.
Abbiamo tutti noi, soprattutto in alcuni momenti, la sensazione che siamo sulla via giusta, ci sentiamo più forti, infusi dalla forza dell’entusiasmo, così le nostre azioni diventano più leggere, dinamiche, raggiungono l’obiettivo. Ciò accade quando veniamo apprezzati dagli altri, quando avvertiamo il loro franco e genuino interesse per quello che diciamo, per le nostre idee e in definitiva per quello che siamo. E’ allora che ci attiviamo, ci esprimiamo al meglio, proviamo emozioni forti e positive, diamo il meglio di noi stessi, siamo esaltati e perciò possiamo compiere qualsiasi impresa, ogni progetto.
Questa condizione, costituisce il dominio del “sano” o dovrei dire del “vivo” vale a dire una persona capace di agire cambiando le situazioni, modificando, attraverso un atto personale, i contorni della realtà. Diciamo allora che il segno della sanità è la capacità di intervenire sulle situazioni, mentre il segno della patologia è dato dall’incapacità di mutare tutto ciò che ci circonda, situazioni e persone comprese.
La psicologia si occupa del perchè non si riesce a intervenire mutando la realtà. Così gli psicologi parlano di difese, ripetitività, identificazioni in ruoli inadatti, mortificazione della capacità creativa insita in ognuno di noi. La creatività viene sedata dall’indifferenza degli altri nei nostri confronti, dal loro non risuonare ai nostri impulsi, alle nostre idee, ai nostri sentimenti. Per incoraggiare la creatività nell’altro è necessario condividerne in parte la sua visione del mondo, il suo “sguardo” sulle cose, quella personale coloritura che diamo agli eventi.
Il disagio e la sofferenza nascono dall’incapacità di dare espressione a ciò che abbiamo dentro, vale a dire un crogiuolo di sentimenti, fantasmi, impulsi, istinti, affetti. Questi sono contenuti comuni a tutti noi, ma la scarsa padronanza e la pericolosità di questo magma fanno si che esso rimanga incapsulato, prigioniero in noi stessi; è per questo che si dice che il vero nemico dell’uomo è se stesso. Quando il nemico è duro a morire (in questo caso direi che è immortale) quando il dialogo, quello interiore, richiederebbe tutta una vita, l’unica soluzione possibile è dottare una nuova logica che consideri gli insuccessi infinitamente meno importanti dei successi, così da acquisire, insieme all’audacia propria di ogni azione eroica, un senso di relatività che deve necessariamente accompagnarci. Avere una visione relativa delle cose, significa considerare il nostro valore come uomini, esclusivamente in funzione del livello di realizzazione che riusciamo a raggiungere e, di conseguenza, scendere da quel piedistallo sul quale ci siamo posti e che rovina ogni spontaneità, rendendo i nostri rapporti prevedibili, tutt’altro che genuini. A volte, è necessario abbandonare completamente ogni prospettiva che dà importanza alla visione che l’altro avrebbe nei nostri confronti, per preferire a questa, una prospettiva dove il timore del giudizio altrui è ridotto al minimo, appunto perchè l’insuccesso si è “relativizzato” rispetto al successo.
Una caratteristica del dialogo creativo è quella di entrare subito in profondità, superando le barriere che in genere si erigono per difendersi dalle emozioni troppo forti, quelle primordiali. La conseguenza della relativizzazione delle difese, porta l’uomo creativo ad un atteggiamento fanciullesco, in cui il senso di meraviglia e la capacità di stupirsi, sono le uniche coordinate entro cui si muovono gli atti, le azioni e le intenzioni del creativo. Ma questo essere come i bambini, necessita di un lungo travaglio maturativo, che porta ad avere chiari gli scopi essenziali delle azioni, quindi i valori della vita. L’atto creativo, per ciò che riguarda questo discorso, necessita della “convinzione” vale a dire della capacità di comprendere che la parte più interessante e gustosa del vivere è racchiusa nella relazione con gli altri, attraverso quella con se stessi. Relazionarsi con se stessi equivale ad incontrare un altro o molti altri, ognuno con le sue difese, le sue armature, i suoi ruoli. Accedere in queste maschere è consentito solo con un atto creativo che si nutre esclusivamente delle emozioni.
Tuttavia, qualsiasi sia l’altro con il quale abbiamo a che fare, in noi stessi o esterno a noi, è in genere diseducato ad usare una modalità creativa di comunicazione, così diviene necessario, per tutti, un insegnamento, ovvero educarsi al dialogo creativo.

5.2. La comunicazione creativa
Si può iniziare partendo dal presupposto che la creatività si nutre di emozioni, così, non dobbiamo fare altro che andare “a caccia” di emozioni, ignorando il tradizionale insegnamento della “difesa” o protezione dalle stesse.
Il contatto con le emozioni, l’abbassamento delle difese e la relativizzazione del rischio, dovrebbero consentire, liberamente, di attingere visioni e progetti, dal territorio più fertile che è in noi: l’inconscio. Guadagnato il contatto con l’inconscio, non resta che amministrarlo fin dove è possibile, tenendo presente che l’unica regola da seguire è essere curiosi di come va a finire, che in altre parole significa che le nostre azioni devono nutrirsi di audacia, spregiudicatezza e una certa dose di menefreghismo nei riguardi dei rischi cui la nostra psiche va incontro. Una vera visione artistica delle situazioni che viviamo, trova le condizioni ideali proprio nella minor presenza possibile di giudizio, da parte nostra e degli altri, nei riguardi dell’opera “d’arte” che andiamo a compiere. Certo, non bisogna cadere nell’equivoco del non senso e ci si deve ricordare che il nostro obiettivo è quello di raggiungere una comunicazione autentica con l’altro e non quello di violentarlo, seppur solo psicologicamente. Ma torniamo al problema del giudizio che poi è il problema delle critiche, o se preferite, delle difese.
Direi subito che la critica è depressiva, scoraggia, seda l’entusiasmo e quindi è tutt’altro che creativa; il giudizio livella le nostre azioni con la pretesa di omologarle e renderle collettive. Conseguenza di ciò è che le nostre azioni cadono nel vuoto, ma come abbiamo più volte sostenuto, il vuoto è il punto migliore da cui partire.
Per capire cosa sia un atto creativo, si può forse usare l’esempio dell’interpretazione; la tesi è che l’interpretazione stessa sia un atto creativo, vediamone un caso: un giorno parlando con una donna sui trent’anni, le chiesi se amasse i bambini e di quanti anni ne avrebbe preferito uno, lei esitò un istante, poi con aria sicura disse: “si, mi piacerebbe averne uno di cinque anni”. Ora, in un primo momento, ascoltando queste parole, saremmo portati a riflettere sull’immagine della signora all’età di cinque anni, età in cui potremmo supporre la nascita di un eventuale disagio, o perfino un evento traumatico, ma a questo punto è proprio la signora a stupirci dicendo: “...forse ho scelto il cinque perchè cinque anni fa, sognavo di avere un bambino che adesso avrebbe avuto proprio cinque anni”. Ecco dunque il sogno infranto, l’evento mancato o anche, l’amore incompiuto di un uomo. Questo potrebbe essere un esempio di sensibilità interpretativa (in tal caso della donna) del tutto simile alla sensibilità dell’artista che crea nessi là dove sarebbe più comodo e facile pensare a qualcosa di scontato.


6. Caso clinico Marianna

6.1. Analisi della domanda
Vorrei ora presentare un caso che dimostra come dietro ad ogni difficoltà che la persona porta come problema principale, si nascondano spesso questioni più profonde e complesse, mascherate da sintomi come la depressione o la fobia, che sono espressione di conflitti sottostanti.
La signora Marianna mi conosce durante una conferenza ad opera del prof. A. C. Dopo qualche giorno mi telefona per dirmi di essere stata favorevolmente colpita dal mio intervento e mi vuole consultare. Mi presenta un vago problema di depressione, associata a paure di vario tipo tra cui l’aerofobia e la paura di essere travolta da un’onda anomala, ogni volta che si trova nei pressi di una spiaggia. Dice di essere immotivata verso la vita, non è attratta più dal marito che considera un “pantofolaio” e anche i figli non le danno grandi soddisfazioni. Dopo qualche seduta, il problema sembrava intensificarsi e Marianna riempiva il nostro incontro con silenzi sempre più lunghi che io accoglievo cercando di darle il tempo necessario, affinché da quel vuoto emergesse qualcosa. Ma anche dopo questa fase, la situazione non sembrava mutare e Marianna continuava sempre più spesso a guardare in basso a destra, (il luogo che in PNL corrisponde alle sensazioni corporee) come se in quel luogo simbolico fosse nascosto il dramma ed insieme la speranza della sua condizione, il problema e la soluzione. Fu allora che pianificai il mio intervento strategico.

6.2. La prima mossa strategica (14-05-04)
Nella seduta successiva feci trovare in studio una telecamera e senza dare molto peso alla cosa, iniziammo il nostro incontro che non sembrava avere nulla di nuovo: lunghi silenzi e sguardo basso, poche parole, tono sommesso. Sapevo che avrei dovuto aspettare ancora un po’ e così le mie domande non si spinsero oltre un “come si sente adesso…”. Era nell’incontro successivo (21-05-04) che riponevo le mie speranze di rompere il circuito vizioso della sintomatologia, e così fu. Marianna si presentò vestita come al solito, in modo essenziale e un po’ trascurata. A questo punto le misi sulla scrivania la telecamera e le feci vedere il filmato che avevamo realizzato e mentre accadeva ciò, un’altra telecamera riprendeva la scena. Con sua grande sorpresa, Marianna non si riconobbe affatto nel personaggio che il filmato mostrava: una donna depressa e ansiosa. Le sue esclamazioni furono del tipo “ma chi è quella là…quella non sono io…incredibile!” e simili.
Marianna per un attimo era uscita dal personaggio che si era creato, o che aveva creduto di impersonare, con quel suo considerarsi vittima, depressa e assalita da mille paure. Allora le feci notare che se riusciva a vedere la sua depressione, se poteva notarla così bene in quella donna nel monitor della telecamera, allora “chi” stava osservando la scena, non poteva essere così depressa come la protagonista del filmato. Certo che no, fu l’implicita risposta di Marianna che confessò di non immaginare neppure quale effetto potesse fare a se stessa quella visione. Durante quella seduta, Marianna espresse tutto ciò che aveva dentro riguardo la sua depressione, e le sue paure, mi raccontò di quando da giovane si sentiva desiderata dagli uomini e si considerava una bella donna, poi, continuando a guardare il filmato aggiungeva….”ma io non sono quella lì”. Durante tutta la seduta Marianna tenne i suoi occhi stupiti incollati sul monitor, e sorridendo spesso scuoteva il capo.
Quell’incontro si concluse con la promessa che le avrei fatto vedere l’ultimo filmato fatto, visto che lei era molto curiosa di rivedersi, credo perché desiderasse riscoprirsi diversa da come appariva nel primo filmato. Le sottolineai ancora una volta che questo voleva dire che ora era uscita dalla sua iniziale condizione e che poteva finalmente “guardare” la sua depressione, il suo disagio. E ciò significava che ne aveva preso le distanze e che si avviava ad uscirne.
Marianna si era appena resa conto che una parte di lei si rifiutava di accettare e accogliere l’altra parte, così il suo aspetto solare e giocoso non poteva convivere con la parte scura, quella depressa e fobica.

6.3. La seconda mossa strategica (21-05-04)
La seconda mossa strategica doveva consistere nel mettere una di fronte all’altra le due anime di un unico volto, il sole e l’oscurità, per mostrare come ognuna potesse essere necessaria all’altra, fonte di nutrimento e di energia.
Così, visto che Marianna nel qui ed ora della seduta si rifiutava di vedere la sua parte “nera”, mi sono offerto io di rappresentarla, in una sorta di psicodramma strategico nel quale, grazie allo scambio di ruoli è possibile mettere a nudo verità nascoste e ribaltare il luogo comune che vedeva la Marianna solare come quella desiderabile ed invidiabile e la Marianna “nera” come quella da cancellare. Le proposi così di immaginare lì davanti a sé, sulla sedia vuota, la sua parte problematica e di instaurare un dialogo. Quando fu la parte “solare” di Marianna a parlare, misi in evidenza l’ammirazione e la stima che questo aspetto luminoso di sé, potesse nutrire verso la parte “oscura”, più introspettiva e profonda, capace di cogliere aspetti intimi e nascosti (ristrutturazione).
La mossa strategica consistette dunque, nel caso di Marianna, nel costringerla a guardare il suo sguardo depresso, ma per far ciò Marianna dovette iniziare a trasformare il suo sguardo “spento” in sguardo “vivo”, quello sguardo che aveva solo dimenticato di possedere e che ora riemergeva prepotentemente. Le sue successive parole furono quasi di protesta verso una ingiusta invasione di campo: quella della sua depressione e delle sue fobie.
Una volta preso coscienza della parte depressa allora, e solo allora, Marianna avrebbe dovuto imparare ad amare questo aspetto di se stessa, rendendosi conto di quanto fosse necessario e complementare rispetto alla controparte luminosa ed estroversa.
A questo punto, si potrebbe considerare concluso l’intervento terapeutico, ma una strana “coincidenza significativa” o, come direbbe Jung: “sincronicità”, stava per entrare in scena.
6.4. La terza mossa strategica

Ecco, in breve, la terza mossa strategica (8-06-04). Informo Marianna che sto scrivendo un caso clinico e che ho scelto di parlare di lei.
Speravo che questa informazione avrebbe permesso a Marianna di sentirsi coinvolta in un progetto importante. Il progetto della sua guarigione. Volevo trascinarla in un’opera che avrebbe minato le fondamenta stesse della sua iniziale depressione e dei suoi attacchi fobici. Infatti, essere coinvolti in qualcosa di appassionante, significa già lasciarsi alle spalle il proprio malessere psicologico.
Appena appresa la notizia, Marianna esprime stupore, il suo viso si illumina, assume un’espressione sorridente e soddisfatta. Mi dice che era ciò che aveva desiderato e fantasticato, avvertendo in ciò una forte e significativa coincidenza. Marianna sa che si tratta di un caso di sincronicità: nel momento in cui fantastica e immagina il suo analista parlare di lei e della sua terapia con altri …ecco che questo si concretizza in un caso clinico. Il suo. Decido di farle leggere una bozza di ciò che ho scritto. Si riconosce e ne è soddisfatta. Ora Marianna si sente coinvolta nel processo terapeutico e dice di essere alla ricerca di un “terzo” nome che possa sintetizzare i due volti della sua personalità.
Direi che la paziente sta per divenire terapeuta di se stessa. Ora può e vuole lei stessa occuparsi dell’ultimo “parto” di questa terapia. Farle nascere un tale intimo e profondo desiderio è stata, forse, la mossa più “strategica”.

6.5. La quarta mossa strategica (14-06-04)
La quarta mossa è rappresentata dallo spostamento del setting terapeutico.
Spero di comunicare alla paziente, per via indiretta, un cambiamento di prospettiva, che sta accadendo nella sua terapia. Così decido di ricevere Marianna nella saletta accanto allo studio. Lo faccio perché è più ariosa, più luminosa e più panoramica. La paziente, guardandosi intorno dice sorridente: “mi piacciono le novità”.
Oggi è vestita di rosso, mi fa venire in mente un noto film con Giulia Roberts “the woman in red” forse è perché c’è ormai un certo coinvolgimento reciproco. Mi parla di un suo amico che ha appena iniziato la terapia con me, e che lei stessa mi ha inviato. Mi chiede se può rileggere il suo “caso clinico” e domanda delucidazioni sul significato simbolico dei suoi sintomi. Le metto in evidenza che lei non è solo la Marianna che viene raccontata in quelle due pagine. Le viene in mente l’immagine di un recente sogno e mi dice: “Adesso vengono i delfini a prendermi…”. Le chiedo come si sente. Mi dice che quando è fuori tutto è privo di interesse. Qui invece avverte la sensazione di occuparsi di qualcosa di importante e profondo. Un sogno mette in evidenza che è necessario concentrarsi nel presente. Parliamo del transfert inteso come coinvolgimento verso l’analisi, dello sguardo amorevole di una madre verso il figlio. La buona madre, viene paragonata alla buona analisi, entrambi possiedono uno sguardo amorevole che ci permette nuove visioni.

6.6. Un primo commento al caso clinico
Nella terapia strategica, quello che il terapeuta cerca di fare è di offrire una visione nuova del problema, ribaltando spesso gli assunti di base del paziente che lo costringono ad averne una ristretta e limitata di sé. In questo caso clinico Marianna diceva di essere depressa, ma quando qualcuno le mostrò che stava facendo la depressa, allora inizialmente lei si ribellò, per poi scoprire come proprio quel suo lato oscuro, potesse essere “invidiabile” ed irradiare luce.
Si fa dunque propriamente psicoterapia strategica, quando si ribaltano gli assunti, le convinzioni, e si va incontro a ciò che un attimo prima si voleva evitare. Quanto più ci sforzeremo di evitare il dolore, trattando i nostri disagi come nemici da zittire, tanto più li rinforzeremo e daremo loro potere, rinnegando la loro funzione, ovvero il senso profondo che è nascosto in fondo ad essi. I disagi di Marianna e il suo atteggiamento evitante (non andare al mare o non prendere l’aereo) l’avevano portata a limitare la sua vita, come se qualcuno decidesse al suo posto. Ora, Marianna è capace di instaurare un dialogo con se stessa, avendo imparato a gestire meglio le sue emozioni.

6.7. Seduta successiva del 19/04/05
La paziente racconta il seguente sogno: è incinta, sicuramente, dice, il bambino è al sesto mese. Osserva una signora con qualche anno in più, anche lei incinta ma più avanti nella gravidanza, presumibilmente all’ottavo mese.
A questo punto, cerco di risalire al sogno che la paziente mi ha portato sei mesi prima di quest’ultimo, per capire se c’è tra i due una corrispondenza nei contenuti. Scopro con sorpresa che, lo stesso giorno 19 di sei mesi prima, il 19/10/04, la paziente mi raccontò di un sogno in cui fece sesso col direttore di un corso (da lei frequentato nella realtà).
Il collegamento tra i due sogni mi sembra evidente: come conseguenza di un incontro importante, ecco che sei mesi dopo scopre di aspettare un bimbo appunto di sei mesi. Questa è la prima coincidenza significativa. La seconda è che in realtà io ho una figlia di sei mesi. Appurato ciò, cerco di risalire ai sogni che la paziente mi ha portato otto mesi prima, per dare un senso alla signora incinta di otto mesi. Scopro che lo stesso identico giorno del mese, il 19/08/04 abbiamo avuto una seduta e che il sogno portato dalla paziente riguarda un furto commesso dalla paziente stessa, la quale associa l’atto di compiere un furto, ad un eroe mitologico, Prometeo, che rubò il fuoco sacro della creazione agli Dei. Mi viene in mente che Marianna cerca di creare e far nascere insieme a me la sua nuova analisi rappresentata da un bimbo che lei pota in grembo, parallelamente a due livelli temporali, separati da due mesi. Una terza coincidenza l’avrei scoperta qualche giorno dopo quando aprendo il secondo quaderno d’analisi della paziente, i miei occhi caddero casualmente sul primo sogno del 8/03/04 nella prima pagina. Il sogno recita così: lei si occupa di mio figlio che ha circa nove anni. A questo bambino crescono sulla spalla delle fluorescenze, lei vuole cacciarle ma viene fermata. In cosa consiste la coincidenza? Nel fatto che il bambino del sogno avesse nove anni e che nove anni prima io mi laureavo in psicologia e dunque “nascevo” come professionista.
Dunque, il figlio di cui si occupa Marianna, è figlio dell’analisi, è quel prodotto personale dato dalla fusione di due personalità, quella del paziente e quella dell’analista. Le due nascite in questione sono quella della figura di professionista (laurea in psicologia) e quella della paziente. Le due nascite sono legate tra loro dal bambino di nove anni.

6.8. Seduta del 26/04/05
Racconta il seguente sogno: è al bagno, sul pavimento ci sono 100 euro, lei nega a qualcuno di averli visti, nasconde i soldi in pancia.
Il bagno è il luogo in cui ci si occupa del proprio corpo, della propria purificazione. Il bagno, in quanto collegato al corpo, è anche il luogo della sofferenza, della domanda, ovvero del desiderio di Marianna. In questo luogo simbolico, si trova un piccolo tesoro, un valore personale che la paziente decide di custodire in grembo, cioè nella parte del corpo deputata alla creazione, alla nascita.
Se Marianna vuole essere generativa e creare una nuova personalità più ampia ed autentica, deve recarsi nel luogo della sua sofferenza, in quel luogo potrà purificarsi, cioè liberarsi di ciò che non la “nutre” più, e successivamente coltivare il suo “valore”. Questo processo assomiglia un po’ ad una sorta di “furto sacro” agli dei… (negare a qualcuno di aver trovato la banconota).
Nel sogno successivo Marianna si sistema comodamente in una bara blu rivestita di stoffa.
Siamo qui di fronte al tema della morte cercata e voluta. Collegando questo, al sogno precedente, si può vedere come il processo di purificazione assomigli ad una morte. Muore infatti il vecchio per far posto al nuovo. Le scorie psichiche che intasano la mente, devono essere eliminate, e con esse un vecchio assetto psicologico deve morire. Tale morte avviene in bagno, nel luogo del corpo e della sofferenza. Dunque, muore anche il corpo. E se il corpo muore, nasce lo spirito, vale a dire una nuova spiritualità, capace di dare un senso alla sofferenza del passato.
Nel sogno conclusivo della seduta, Marianna si trova in spiaggia, qualcuno le affida un bambino posto in riva al mare. Quando l’acqua si alza e mette in pericolo la vita del bimbo, Marianna lo salva portandolo al sicuro.
Si affaccia in questo sogno il tema della salvezza che coincide con la capacità di prendersi cura di se stessa, e di quella parte creativa e generativa, o bambina, che deve essere protetta e curata.

6.9. Seduta del 3/05/05
Racconta il seguente sogno: durante una gita, un prete le fa la corte, la bacia più volte. Lei è felice di attrarlo, fanno l’amore, pensa che potrebbe rimanere incinta. Si sveglia con una sensazione piacevole.
Il prete in questione, un certo Don D., ha organizzato un corso di danzaterapia che lei sta seguendo.
Il prete è una figura sia paterna, sia inaccessibile con la quale è possibile avere solo una relazione di natura spirituale, un po’ come con uno psicoterapeuta. Si tratta quindi di un rapporto “proibito” sul piano della realtà e che andrebbe nascosto e tenuto segreto, cioè simbolicamente custodito nel profondo di se stessi. Un tale rapporto potrebbe, sempre simbolicamente, portare alla “nascita” di una nuova personalità accolta con entusiasmo da Marianna.
Nel sogno seguente si trova a casa della zia, entra una bambina con in mano 100 euro e chiede a qualcuno se può cambiarli (in banconote da piccolo taglio). Poi la bimba se ne va con la nipote della paziente. Infine Marianna dice al fratello di doverlo abbandonare. Il tema è quello della suddivisione di un problema grosso (la banconota unica di grosso taglio) in sottoproblemi minori che possono essere più agevolmente affrontati e risolti. Una banconota da 100 euro è insolita nelle mani di una bambina, è per così dire, poco spendibile, mentre delle monete sarebbero più appropriate. Il collegamento con il sogno del 26/04/05 viene effettuato dalla paziente stessa. La bambina potrebbe rappresentare il corpo stesso con la sua difficoltà a “spendersi” in maniera adeguata e consona. Il corpo, come la banconota, andrebbe “cambiato” per essere “ricambiato” cioè appagato.
Il terzo ed ultimo sogno della seduta si svolge in un posto di vacanza, tra le persone c’è un “ritardato” mentale che la fissa, lei ha paura dello sguardo violento da “orso”, sta lontana mentre la famiglia non se ne rende conto.
Il ritardato esprime quella parte della personalità della sognatrice che è rimasta indietro rispetto alle altre, quella parte trascurata che prima o poi manifesta il suo disagio. Tale disagio passa per il corpo e si traduce nella paura di affrontare i propri istinti più bassi e meno evoluti. La paura di un tale incontro, nasconde il desiderio inconscio di essere travolta da ciò che il “ritardato” può rappresentare, cioè una sessualità poco raffinata, per niente razionale, assurda ed imprevedibile, vissuta con uomini istintivi, poco accostabili alla figura del prete-psicologo. L’incontro con questa parte infantile e istintiva, non ancora “cambiata” e “ricambiata”, poco evoluta e raffinata, è anche il presupposto della crescita e della completezza psichica di Marianna.

6.10. Seduta del 10/05/05
Il sogno che apre l’incontro, si svolge nel paese d’infanzia di Marianna dove si trova con il fratello, in casa di F., che è anche la scuola media da lei frequentata durante l’adolescenza. Si ricorda di un disegno, nato in questo luogo, che le ha permesso di scoprire in lei una vocazione artistica, che da quel momento svilupperà. In quel posto ora hanno aperto una bottega d’arte e ci sono quadri con la parte centrale in rilievo. Marianna pensa di poterli fare. Al piano di sopra, la cognata ha un bimbo, che le si avvicina, le tocca il seno e ci si poggia con la testa.
Questo sogno è fonte di ispirazione per un quadro in rilievo che la paziente sta ultimando. L’opera intitolata: Vita-Morte-Vita, è composta di un sole in alto a destra, una pietra in basso a sinistra, un legno corroso dal mare accanto alla pietra, e un guscio d’ostrica sulla destra, sotto il sole. Il tutto su uno sfondo blu. Marianna mi racconta di aver trovato quel legno sulla spiaggia, insieme alla pietra. Il guscio è quello di un’ostrica mangiata dalla paziente stessa. Dice poi che la pietra rappresenta la nascita, il legno la morte ed il guscio la vita. Faccio notare a Marianna che gli elementi dell’opera d’arte sono quattro e che tale numero è simbolo di completezza e di totalità. Si tratta forse di un Mandala? Marianna mi spiega che la fonte d’ispirazione del quadro deriva, oltre che dal sogno, da un libro che sta leggendo: donne che corrono coi lupi. Osservando la tavola su cui è realizzata l’opera, emerge chiara la sua forma, quella di un quadrato che è l’essenza stessa del quattro, un temenos, luogo simbolico di ordine e di accoglienza, nel quale può verificarsi la metamorfosi di Marianna. In alto a destra, come si è detto, troviamo il sole, un simbolo di energia e di crescita: la paziente si avvia verso una nuova consapevolezza. Il sole, inoltre, è posto in alto a destra, il luogo che in PNL indica una immagine futura, che sta per arrivare, che è possibile. Questa immagine-situazione è riferita al sole, cioè al cuore-centro che rappresenta. Il sole però è anche il simbolo del maschile, contrapposto alla luna-femminile. La crescita interiore di Marianna, dovrà passare attraverso l’integrazione dei due principi, maschile e femminile. Il femminile lo troviamo espresso nel simbolo dell’ostrica che rappresenta inoltre la perfezione spirituale. Anche il legno, collegato all’albero ed alla crescita, è un simbolo di conoscenza e di saggezza. Infine la pietra, per molti popoli, possiede un’anima: dice Jung affidando una pietra ad una sua paziente: ”ecco, questa è la mia anima”. Merita infine di essere amplificato, il significato del bambino in riferimento al seno, alla fine del sogno. La presenza di un bimbo, giustifica e richiede, quella meno evidente di una madre, “della” madre. Marianna, madre, dunque, di se stessa. Per cogliere appieno il significato di questa coppia di simboli madre-bambino, è opportuno ricordare due sogni, il primo fatto dalla paziente il 06/12/04 che introdusse il tema di una nuova e necessaria analisi “al femminile”, contrapposta all’analisi “maschile” condotta fino ad allora dalla coppia analista-paziente. Nel suddetto sogno Marianna incontra un analista donna. Il secondo sogno, che è anche il successivo, del 10/12/04, tratta lo stesso tema: Marianna si trova con due psicoterapeute che cercano di convincerla ad abbandonare la terapia con Roberto Ruga. Lei vuole spiegazioni e sente la proposta come un’imposizione. Si arrabbia e piange.
Il tema che i due sogni propongono è dunque quello di un cambio di stile nella conduzione dell’analisi, che dovrebbe essere come una “buona madre” cioè contenitiva, accogliente, meno logica e razionale, meno interpretativa ed analitica. Solo una analisi materna, o al materno, potrà permettere a Marianna di risanare il freddo rapporto con la vera madre del passato (una figura a detta della stessa paziente, alquanto rigida). Come risposta ad una tale tipologia di madre fredda, Marianna ha sviluppato un potente “animus” che la tiene lontana dagli uomini, con i quali entra in competizione per il primato di potere sotteso ad una dinamica di sfida inconscia. Quel potente ed onnipresente animus (la parte maschile della donna), si scioglie nell’abbraccio materno caldo ed avvolgente, ma mai avuto.
L’unico altro sogno che riguarda una terapeuta donna viene portato da Marianna il 13/07/04, giorno in cui la paziente si presenta accompagnata dal marito per via di una gamba ingessata. Essendo lo studio al piano superiore, il setting dovrà essere necessariamente diverso. Ricevo dunque la paziente nel salone al piano terra. Questo nuovo setting allude e prelude ad una nuova analisi al femminile? La risposta può essere offerta dal sogno portato quel giorno stesso (13/07/04). Eccone un frammento: in una nicchia ci sono “materiali” femminili (genitali). La nicchia è forse l’analisi? L’analisi dunque si deve occupare della parte generativa-femminile-materna della paziente.

6.11. Seduta del 17/05/05
La paziente si presenta con in mano una tavola di compensato di circa 50 cm x 50. E’ l’opera di cui mi ha parlato. Sul retro, reca una scritta che si rifà ad un pensiero reiki. Poi racconta il seguente sogno del 14/05/05: Sta andando ad un paesino verso Serra, c’è una strada piena di acqua come a Venezia, una signora ed un cagnolino. In cagnolino la morde sulla natica sinistra, poi il morso, fatto a striature, si trasforma in un cordoncino a forma di otto coricato. Lei minaccia la signora che accompagna il cane di denunciarla.
Faccio notare alla paziente che il simbolo dell’otto coricato appartiene al linguaggio della matematica e significa: “infinito”. Iniziamo così a riflettere sul significato che tale simbolo può avere per la paziente e per l’analisi. Una prima relazione che emerge è quella tra l’infinito e l’aspetto spirituale di Marianna, il suo desiderio di andare “oltre” il limite, oltre la “siepe”. Dopo questa prima riflessione, nasce la considerazione che a portare la paziente verso l’infinito è un essere inferiore, un animale appunto un cane che la morde. Dunque il contatto con la parte “inferiore”, la parte istintiva e primitiva di Marianna, le consente di andare in un “oltre”, in un al di là, che è il luogo della trasformazione. Il simbolo di infinito dunque assume una valenza trasformativa, spirituale, o anche di ascesa nel senso che la parte spirituale si trova simbolicamente in alto, all’opposto della parte istintiva, primitiva, inferiore, animalesca, che si trova in basso, nel luogo figurato che è la dimora del cane. Tuttavia, è proprio il contatto col cane a portare Marianna in alto. E’ altresì un “ferita” ad aprire uno squarcio verso l’infinito, ovvero, la ferita diviene feritoia che consente di tendere verso l’infinito.

6.12. Frammenti di sogni successivi
Nel sogno successivo è ad un ritiro yoga. Qualcuno le dice di aspettare… arriva un monaco con un grande fallo che le propone di fare l’amore, ma lei sa che con i monaci non è possibile. La capacità della paziente di saper aspettare la salva da un disastroso passaggio all’atto. Il sogno seguente la vede fare l’amore con qualcuno, teme di essere incinta, ma non può essere, una persona la rassicura dicendo che ciò si potrà verificare tra qualche mese.
La paura di essere incinta nasconde il desiderio di questa magica condizione.
Nel sogno del 21/06/05, si trova in campagna, la terra è piena di serpenti, bisogna andare via. Prende un’ape a tre ruote, ma non sa come frenare, sbatte. Dice alla madre di non essere pazza, i veri pazzi sono coloro che si fanno condizionare. Prima di avventurarsi in terreni impervi è necessario prendere alcune precauzioni psichiche. Cammina nuda, la osservano, pensa di dare fastidio, si copre. La devono operare al fegato, nonostante l’anestesia lei resiste e resta sveglia, dice ai medici che ci sono altri metodi, e che loro sono venduti alle multinazionali.
Per compiere un atto eroico bisogna svestirsi dei valori collettivi e proporre i propri. Ci vuole fegato, cioè coraggio e intraprendenza, infine bisogna essere autentici cioè non dei venduti.

6.13. Dal diario di Marianna
Marianna ha preso l’abitudine di scrivere dei suoi cambiamenti, ecco un frammento tratto dal suo diario: “…il mio guaritore interno mi invita a riflettere sulla mia vita e a tirare fuori lo spirito selvaggio che stavo sempre di più perdendo. La mia originalità divorata da onde anomale, nei miei sogni era il tema ricorrente, nella vita reale diveniva panico. Il tutto causato dalla tendenza ad amare troppo gli altri e non tanto me stessa. E’ triste scoprire alla mia età di non essere riuscita a prendermi il tempo che mi apparteneva, come una doccia veloce anziché un bagno rilassante e profumato. Ho approfondito molto gli studi della Norwood, sulle donne che amano troppo, una forma di dipendenza. Ogni volta che avevo la propensione a risolvere i problemi degli altri, la riflessione che facevo era che il marito, il figlio la mamma, papà, il fratello, hanno tutti le loro capacità per risolvere i propri problemi da soli. Col tempo e grazie all’analisi, ho imparato a mettere dei paletti, per evitare di portare quei carichi sulle spalle, ho cercato di riappropriami della mia anima selvaggia. Volevo riprendermi la mia vita.
Devo molto al mio terapeuta Roberto Ruga che mi ha accolto e presa per mano per osservare il mondo senza aver paura, un grazie anche al nostro comune “papà” A. C., leggere i suoi libri è stato come aprire un grande baule pieno di tesori. Il mio pensiero per un suo compleanno: “le auguro ancora una lunga vita, potrà scrivere quei pensieri che mi daranno l‘energia per andare avanti senza paura. E sarà sempre ad aspettarmi come una presenza forte che mi prende per mano per farmi volare come una farfalla”.
In una campagna di scavo trovo due monete con la dea Athena. Sento dentro molta energia che non ha trovato la direzione giusta, potrei partorire un figlio creativo. Mi sono più volte chiamata vesuvia. Nel mese di marzo dovevo partecipare a un seminario Yoga. A fine giornata, seguita da un maestro, mi sono distesa sul pavimento per rilassarmi. Il mio amico A. mi osserva dicendomi “sembri una morta”, mi ha molto colpito facendomi nascere una importante riflessione, che dovevo morire simbolicamente. Da qui parte un rituale che il mio amico mette in scena accendendo addirittura dei ceri. In coincidenza di questo rituale, sul lavoro (faccio parte di un gruppo per gli scavi archeologici) trovo sotto il pavimento di un chiesa, l’altare di un ipogeo sotto terra che ha coinciso con il mio andare sotto, negli inferi. La cosa sorprendente è stata quando la rimanente parte di scavo sotto l’altare, mostrava pareti affrescate da una morte danzante… Il giorno dopo mi sento in una dimensione magica, la mattina presto, durante una passeggiata sul lago di Ganzirri, osservo il sole che si riflette sull’acqua in modo speciale e da cui si può prendere energia per ricaricare il corpo, speciale perché vi ho associato una frase presa dal Reiki: “ottenere l’illuminazione è come la luna riflessa nell’acqua. La luna non si bagna, nè l’acqua è disturbata, eppure la sua luce è vasta e grande”. La natura organizza questi equilibri e l’uomo dovrebbe ricaricarsi attraverso di essa. Sulla spiaggia, in punto nevralgico dove dovrebbe nascere il ponte che collega la Calabria con la Sicilia, sento ancora una dimensione magica, sento tanta energia, vengo attirata da una pietra, un legno consumato dal lavorio dell’acqua, penso in quel momento che la pietra, il legno mi stiano parlando, comunicandomi un infinito che ancora non riesco a capire, ma con la promessa di creare qualcosa. Un guscio di ostrica farà parte degli oggetti recuperati, preso durante la passeggiata intorno al lago. Veniamo catturati con Antonella dal profumo di pesce fresco e dal modo che alcune persone gustavano le cozze e le ostriche crude. Invitate a degustare sapori e i profumi originali che solo la natura può dare, sento di portarmi dietro il guscio dell’ostrica, che avevo degustato, anch’esso mi comunicava qualcosa che al momento non riesco di nuovo a capire, ma la sensazione di appartenenza, quella si la sento forte. Al rientro a casa porto un tesoro, la pietra, il legno e l’ostrica, riproponendomi di far nascere …cosa? Una mattina, appena sveglia osservo la pietra il legno e l’ostrica, li sistemo su una tavolozza colorata in azzurro dando un ordine: la pietra è vita, riferita alla nascita primaria, al legno trasformato, consumato dal lavorio con il mare-morte, e l’ostrica-vita come simbolo di rinascita. In alto, il sole fonte di energia.

6.14. Conclusioni
La paziente ha risposto positivamente al programma di visualizzazione propostole. Il successo terapeutico nel campo della sintomatologia specifica, ha consentito di spostare successivamente l’attenzione del processo psicoterapico, su problematiche strutturali della personalità. L’analisi dei sogni ha consentito la messa a fuoco del conflitto sottostante, mascherato dalla paura stessa, che celava un’angoscia legata a desideri onnipotenti di controllo, espressi simbolicamente dalla paura di precipitare o di essere inghiottita dalle acque.


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