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Seminario tenuto dal dr. Roberto Ruga presso la cattedra del prof. Aldo Carotenuto, Università di Roma “La Sapienza”.
(13/01/1997-25/05/1997)


Autorealizzazione Creativa


Ognuno di noi è proteso verso la piena realizzazione delle proprie potenzialità ed in genere si soffre quando non riusciamo ad esprimere quello che siamo veramente. Ciò accade perchè non siamo in genere consapevoli delle nostre più autentiche aspirazioni, dei nostri inconsci progetti, di ciò che alberga nel nostro animo. In genere, ci vuole molto tempo, quasi una vita, prima di trovare la strada per esprimerci in tutta la nostra capacità, ma ciò che abbiamo a disposizione sono, direi, piccoli indizi, delle tracce che ci parlano di quei progetti nascosti o calpestati, inespressi. Abbiamo tutti noi, soprattutto in alcuni momenti, la sensazione che siamo sulla via giusta, ci sentiamo più forti, infusi dalla forza dell’entusiasmo, così le nostre azioni diventano più leggere, dinamiche, raggiungono l’obiettivo. In genere ciò accade quando veniamo apprezzati dagli altri, quando avvertiamo il loro franco e genuino interesse per quello che diciamo, per le nostre idee e in definitiva per quello che siamo. E’ allora che ci attiviamo, ci esprimiamo al meglio, proviamo emozioni forti e positive, diamo il meglio di noi stessi, siamo esaltati e perciò possiamo compiere qualsiasi impresa, ogni progetto.
Questa condizione, direi, costituisce il dominio del “sano” o dovrei dire del “vivo” vale a dire una persona capace di agire cambiando le situazioni, modificando, attraverso un atto personale, i contorni della realtà. Diciamo allora che il segno della sanità è la capacità di intervenire sulle situazioni, mentre il segno della patologia è dato dall’incapacità di mutare tutto ciò che ci circonda, situazioni e persone comprese.
La psicologia si occupa del perchè non si riesce a intervenire mutando la realtà. Così gli psicologi parlano di difese, ripetitività, identificazioni in ruoli inadatti, mortificazione della capacità creativa insita in ognuno di noi. La creatività viene sedata dall’indifferenza degli altri nei nostri confronti, dal loro non risuonare ai nostri impulsi, alle nostre idee, ai nostri sentimenti. Per incoraggiare la creatività nell’altro è necessario condividerne in parte la sua visione del mondo, il suo “sguardo” sulle cose, quella personale coloritura che diamo agli eventi; ma per calarsi così tanto negli altri, immedesimandosi nei loro stili di vita è necessario amarli. La comunicazione assume nell’amore un carattere immediato ed autentico tale da restare come “sospesa” infatti si dice: gli amanti si capiscono “al volo”.
Il disagio e la sofferenza nascono dall’incapacità di dare espressione a ciò che abbiamo dentro, vale a dire un crogiuolo di sentimenti, fantasmi, impulsi, istinti, affetti. Questi sono contenuti comuni a tutti noi, ma la scarsa padronanza e la pericolosità di questo magma fanno si che esso rimanga incapsulato, prigioniero in noi stessi; è per questo che si dice che il vero nemico dell’uomo è se stesso. Quando il nemico è duro a morire, in questo caso direi che è immortale, quando il dialogo -quello interiore- richiederebbe tutta una vita, l’unica soluzione possibile è un atto di forza, ovvero il disorientamento di questo fatale “impostore” che si trova dentro di noi. Per disorientare il nemico, dobbiamo adottare una nuova logica che considera gli insuccessi infinitamente meno importanti dei successi, così da acquisire, insieme all’audacia propria di ogni azione eroica, un senso di relatività che deve necessariamente accompagnarci. Avere una visione relativa delle cose significa considerare il nostro valore come uomini, esclusivamente in funzione del livello di realizzazione che riusciamo a raggiungere e, di conseguenza, scendere da quel piedistallo sul quale ci siamo posti e che rovina ogni spontaneità, rendendo i nostri rapporti prevedibili, tutt’altro che genuini. A volte -direi nei momenti fondamentali- è necessario abbandonare completamente ogni prospettiva che dà importanza alla visione che l’altro avrebbe nei nostri confronti, per preferire a questa, una prospettiva dove il timore del giudizio altrui è ridotto al minimo, appunto perchè l’insuccesso si è “relativizzato” rispetto al successo.
Una caratteristica del dialogo creativo è quella di entrare subito in profondità, superando le barriere che in genere si erigono per difendersi dalle emozioni troppo forti, quelle primordiali. La conseguenza della relativizzazione delle difese, porta l’uomo creativo ad un atteggiamento fanciullesco, in cui il senso di meraviglia e la capacità di stupirsi, sono le uniche coordinate entro cui si muovono gli atti, le azioni e le intenzioni del creativo. Ma questo essere come i bambini, necessita di un lungo travaglio maturativo, che porta ad avere chiari gli scopi essenziali delle azioni, quindi i valori della vita. L’atto creativo, per ciò che riguarda questo discorso, necessita della “convinzione” vale a dire della capacità di comprendere che la parte più interessante e gustosa del vivere è racchiusa nella relazione con gli altri, attraverso quella con se stessi. Relazionarsi con se stessi equivale ad incontrare un altro o molti altri, ognuno con le sue difese, le sue armature, i suoi ruoli. Accedere in queste maschere è consentito solo con un atto creativo che si nutre esclusivamente delle emozioni, il resto non viene sollecitato.
Tuttavia, qualsiasi sia l’altro con il quale abbiamo a che fare, in noi stessi o esterno a noi, è in genere diseducato ad usare una modalità creativa di comunicazione, così diviene necessario, per tutti, un insegnamento, ovvero educarsi al dialogo creativo.
Si può iniziare partendo dal presupposto che la creatività si nutre di emozioni, così, non dobbiamo fare altro che andare “a caccia” di emozioni, ignorando il tradizionale insegnamento della “difesa” o protezione dalle stesse. Tutto il mondo delle emozioni deve così attirare l’attenzione dello psicologo, iniziando da ogni forma d’arte, ma non per occuparsene studiandola -e questo è l’equivoco- ma per viverla, riviverla, per permettere che sia l’emozione stessa il nostro insegnamento. Ciò significa, in altre parole, trasferire la sensibilità artistica di un pittore, da un quadro alla realtà stessa. Per fare questo però è necessario un stato di “ispirazione” continua e non è detto che ogni volta sia quella giusta, allora per raggiungere tale stato, bisogna fare in modo che esso divenga il nostro “stile”.
Il contatto con le emozioni, l’abbassamento delle difese e la relativizzazione del rischio, dovrebbero consentire, liberamente, di attingere visioni e progetti, dal territorio più fertile che è in noi: l’inconscio. Guadagnato il contatto con l’inconscio, non resta che amministrarlo fin dove è possibile, tenendo presente che l’unica regola da seguire è essere curiosi di come va a finire, che in altre parole significa che le nostre azioni devono nutrirsi di audacia, spregiudicatezza e una certa dose di menefreghismo nei riguardi dei rischi cui la nostra psiche va in contro. Una vera visione artistica delle situazioni che viviamo, trova le condizioni ideali proprio nella minor presenza possibile di giudizio, da parte nostra e degli altri, nei riguardi dell’opera “d’arte” che andiamo a compiere. ...Si, così finisci in galera! potrebbe dire qualcuno (ancora peggio se ce lo diciamo da soli). Certo, non bisogna cadere nell’equivoco del non senso e ci si deve ricordare che il nostro obiettivo è quello di raggiungere una comunicazione autentica con l’altro e non quello di violentarlo, seppur solo psicologicamente. Ma torniamo al problema del giudizio che poi è il problema delle critiche, o se preferite, delle difese.
Direi subito che la critica è depressiva, scoraggia, seda l’entusiasmo e quindi è tutt’altro che creativa; il giudizio livella le nostre azioni con la pretesa di omologarle e renderle collettive. Conseguguenza di ciò è che le nostre azioni cadono nel vuoto, ma teniamo presente che il vuoto è il punto migliore da cui partire.
Per capire cosa sia un atto creativo, si può forse usare l’esempio dell’interpretazione; la tesi è che l’interpretazione stessa sia un atto creativo, vediamone un caso: un giorno parlando con una donna sui trent’anni, le chiesi se amasse i bambini e di quanti anni ne avrebbe preferito uno, lei esitò un istante, poi con aria sicura disse: “si, mi piacerebbe averne uno di cinque anni”. Ora, in un primo momento, ascoltando queste parole, saremmo portati a riflettere sull’immagine della signora all’età di cinque anni, età in cui potremmo supporre la nascita di un eventuale disagio, o perfino un evento traumatico, ma a questo punto è proprio la signora a stupirci dicendo: “...forse ho scelto il cinque perchè cinque anni fa, sognavo di avere un bambino che adesso avrebbe avuto proprio cinque anni”. Ecco dunque il sogno infranto, l’evento mancato o anche, l’amore incompiuto di un uomo. Questo potrebbe essere un esempio di sensibilità interpretativa (in tal caso della donna) del tutto simile alla sensibilità dell’artista che crea nessi là dove sarebbe più comodo e facile pensare a qualcosa di scontato.
Grazie all’interpretazione, come nel caso di un’opera d’arte, emerge in pochi attimi una certa situazione emotiva che nutre l’interpretazione stessa, vale a dire: l’atto creativo si nutre delle emozioni stesse. Un criterio allora per valutare la precisione di un’interpretazione è quello di considerarne la carica emotiva, o la sua capacità “artistica”, ovvero creativa.
L’interpretazione, quella utile, si sposta da una visione consueta degli eventi per scoprirne un aspetto emotivo. Quando però la visione dell’evento è troppo lontana dal consueto, dal noto, sconfina nell’apparente follia, una situazione cioè nella quale la chiave interpretativa non basta più per aprire la porta del sentimento; così di fronte ad un atto folle si resta freddi.
Mentre conversiamo con un persona sconosciuta, la prima cosa che cerchiamo di avvertire è il senso delle interpretazioni che quella persona ha di eventi a noi noti. Si parla del più e del meno ed in genere basta qualche commento su un fatto di cronaca per cogliere, attraverso la visione proposta, il “movimento” dei sentimenti di quella persona. Il punto è questo: noi viviamo in questo genere di “movimenti”. La comunicazione con l’altro è diventata una forma d’arte, garantita dal nostro atteggiamento affettivo di compartecipazione empatica, grazie al quale gli eventi esterni risuonano in noi. Qualcuno potrebbe a questo punto sostenere che l’arte non si insegna, ma a noi conviene pensare che come l’orecchio musicale si sviluppa attraverso l’esercizio dell’ascolto, così partecipare affettivamente con ciò che ci circonda, può essere materia di insegnamento come l’arte. La difficoltà che ci si presenta, nasce in genere dalla erronea convinzione che noi siamo indipendenti dagli altri e non abbiamo bisogno di nessuno, ma questa convinzione fa parte delle difese con le quali ci proteggiamo dal rischio del coinvolgimento. L’illusione di poter trovare da soli una risposta esauriente a tutti i nostri perchè, ci rende ancora più schiavi del disagio esistenziale in cui l’uomo, da sempre si dimena. La patologia coincide allora con il progressivo restringimento di quel campo relazionale che ci rende vitali, permettendo l’espressione delle nostre qualità più umane.
Dunque, il cuore del problema si trova nel campo relazionale, ovvero quel luogo dove la nostra semplice presenza, genera un sistema di forze in continuo, reciproco ed imprevedibile “movimento”: e qui subentra l’arte. Se c’è movimento, tradotto in termini psicologici, significa che nel rapporto con gli altri, sperimentiamo un ampliamento della nostra personalità, con l’aggiunta di qualità umane nuove: tocchiamo qui il tema della trasformazione, direi a questo punto reciproca, delle forze (gli affetti) che generano il campo.
L’atto creativo, che è una visione artistica sulle cose, genera un campo di forze dove, a trovarsi in movimento, sono proprio i sentimenti delle persone che in tale campo si trovano. Nell’incontro autentico, le forze generate dal campo, creano quella che in psicologia si può chiamare curiosità. In tal caso, ci sentiamo attratti dall’altro e proviamo il desiderio di muoverci, siamo cioè mossi dalla curiosità o, con un linguaggio più spigliato, potremmo dire dalla seduzione. La capacità di sedurre e di essere sedotti rappresenta la cifra della nostra salute mentale, nonchè la possibilità di compiere una ricerca, magari su se stessi. In una ricerca artistica, ciò che conta è avere un buon strumento interpretativo, così se è abbastanza pacifico stabilire quando il levare di una gamba si trasforma in pennellata nell’aria, diviene più complesso cogliere la poesia degli sguardi, dei sorrisi e di ogni cosa passi sotto il nostro abituale sguardo. Si, perchè è l’abitudine che inficia la possibilità di guardare con sentimento la realtà; e l’abitudine è figlia di un certo tipo di “maturità” quella che detta regole, stabilisce canoni cui uniformarsi, minimizza i rischi, traccia rassicuranti strade collettive. La maturità artistica riscopre invece ogni età della vita, ogni fase o tappa della crescita, non dimenticando cosa significa essere neonati e poi fanciulli, ma conservando e integrando i tratti infantili con la visione seguente dell’esperienza, quella però che non si compie mai una volta per tutte, ma che resta aperta alla ristrutturazione itinerante.
L’esigenza di riconsiderare continuamente le verità raggiunte, deriva dall’insoddisfazione ontologica dell’essere umano e se si avverte questa tensione, ciò vuol dire che viviamo, ma, per scoprirne il senso. Il senso, rimanda sempre ai sentimenti e al rapporto.
L’utilizzazione delle proprie potenzialità, passa attraverso i sentimenti, questi, abbiamo visto, si creano nel rapporto, ma non sempre; occorre una modalità artistica o creativa di comunicare con l’altro, dunque è su questo punto che devono convergere i nostri sforzi. Per andare al di là di ogni singolo relativismo, prendiamo ad esempio il rapporto con Dio come prototipo o archetipo di ogni rapporto. Cosa ha di caratteristico questa relazione che interessa il nostro discorso? La risposta è l’essere incondizionata, senza limite, sorretta dalla fede. In sostanza, noi ci concediamo totalmente all’Altro che assume le fattezze camaleontiche del Don Giovanni; lo consideriamo in mille modi diversi, a volte lo viviamo come padre, come madre (la Madonna) come figlio, come bambino (Gesù Bambino) o come Spirito Santo, cioè come puro spirito. La relazione col divino diventa quindi multicaratteriale, è come se implicasse diverse persone, soddisfa varie esigenze dando all’anima un senso di completezza. Ciò che più conta ai fini del nostro discorso è la “convinzione” o dovrei dire la fede, con la quale amiamo; è grazie alla forza di tale motivazione, alla sua cristallina limpidezza che noi siamo certi di fare la cosa giusta, dunque necessaria. Quello che vorrei suggerire è che dobbiamo sentirci autorizzati a vivere il rapporto con gli altri, nella stessa maniera in cui l’uomo di fede vive il suo con Dio. Lo so, sto delirando (...battutina) ma anche se fosse, ci conviene utilizzare ciò che di positivo ha il delirio e cioè la sua forza di trascinamento che nasce dall’esaltazione, vale a dire dall’emersione di sentimenti come entusiasmo, euforia, sicurezza; ed ecco che siamo tornati all’obiettivo iniziale: stanare i sentimenti. Nel sentimento religioso è presente, forse ve ne siete già accorti, una componente di delirio, ma leggiamolo in una chiave a noi utile. Il delirio diviene la nostra salvezza, nel senso che riorganizza la realtà, adoperando una visione suggestiva, personale, travolgente di pathos; il delirio, rimette in moto un’esistenza che si era bloccata, utilizzando la forza della proiezione che è il primo passo verso la conoscenza di sè. Nel delirio, il proprio destino diventa grandioso, ci sentiamo illuminati, con una sensazione di strapotere vicina alla megalomania. Il rischio è ora quello di ritirare la propria energia dal mondo esterno, investendola nell’Io, in una forma esasperata di narcisismo, ma la nostra capacità di proiettare sull’altro reale (un Dio in carne e ossa) permette fortunatamente lo sbocco di questa energia. La proiezione confonde, come il delirio, la realtà, la deforma, ma permette l’illusione e quindi il sentimento dell’essere sedotti: il mondo interiore è ora alla nostra portata.
In genere, nella vita, si può scegliere di proseguire su una di queste due vie contrapposte: quella della vita o quella della morte. Il delirio è una scelta di vita ed è anche il mondo delle illusioni, in cui la percezione scivola nella ricostruzione soggettiva. E’ il caso ad esempio della illusione affettiva, in cui può capitare, passeggiando da soli attraverso un bosco, di scambiare un tronco d’albero o un masso di roccia, per una forma umana. Si tratta anche qui, di una visione artistica, nutrita questa volta dalla paura. Là dove il sentimento esige di manifestarsi, ecco che crea l’arte. In tal caso, l’arte sembra nascere da una alterazione del rapporto con la realtà la quale si arricchisce e viene trasformata, potremmo dire trasfigurata o allucinata, grazie ad una sottostante tonalità affettiva che colora di soggettivo la visione naturale delle cose; il corpo del soggetto e il “corpo” della realtà si trovano in comunanza. L’artista fa “l’amore” col mondo o ama il mondo e lo fa per contattare in maniera mediata i propri sentimenti, visto che un confronto diretto sarebbe annichilente. L’allucinazione è per fare un esempio, la rappresentazione inconscia di uno stato affettivo profondamente vissuto o di un desiderio intensamente sentito che permette un rapporto empatico e personale con il reale, direi come nel sogno. Lo stato affettivo desiderante, crea una tensione che quando non si scatena nella pura patologia e viene tollerata, diviene l’energia che nutre ogni nostra azione. Sono le relazioni che esprimono tale tensione e le danno forma, ora nella tendenza all’apertura, ora verso la chiusura, ora con uno slancio nei riguardi del mondo, ora come difesa.
La capacità di aprirsi al mondo, costituisce un atto di responsabilità, dunque una scelta. Tale scelta, rappresenta la nostra libertà interiore.
Vorrei ora parlare di quelle persone che hanno il cosiddetto sguardo vago, cioè quel tipo di sguardo che ha chi pensa costantemente e sembra perso nell’infinito, come se la realtà non fosse davanti ai suoi occhi. Queste persone non si accorgono neanche che tu esisti, sono fisicamente accanto a te, ma si avverte nettamente la loro assenza. Sono convinte ed hanno la presunzione di poter risolvere i loro problemi da soli. Questo sguardo è un vizio che abbiamo un po' tutti, ma alcuni è come se fossero sotto l’effetto di una droga che fornisce loro, il mondo meraviglioso di cui hanno disperato bisogno. Accanto alla domanda chi sono, dovremmo porci quella del dove sono.
L’aiuto che in tal caso ci può fornire la creatività è quello di sostituire l’accanimento al pensiero, con l’abitudine all’azione. In fondo, l’arte è l’espressione di un sentimento, la sua traduzione in oggetto. Bisogna allora trovare le risposte alle nostre domande, nel mondo concreto, ovvero attraverso l’azione, il fare. E cosa si fa? in primo luogo, si guarda. Guardarsi prolungatamente negli occhi è un tipico gioco da bambini, direi che è una cosa molto saggia e anche pericolosa, perciò tabù. Io romperei questo tabù iniziando con il guardare, meglio fissare, se stessi davanti allo specchio. Quante volte ci troviamo giornalmente davanti uno specchio, eppure ci soffermiamo raramente con lo sguardo nello sguardo ed anche qui, potremmo dire, sarebbe roba da bambini. Male, molto male. L’archetipo del guardarsi dentro è proprio il guardarsi negli occhi, riflessi magari in quelli di qualcun altro. Alcuni psicoanalisti adoperano molto la parola specchio, forse esiste anche una terapia dello specchio, sicuramente la conquista dell’identità del bambino avviene anche grazie ad esso. Nel nostro discorso, lo specchio diviene una metafora, di cui lo sguardo ne è il linguaggio.
Ora, nell’atto di guardare, si cerca di comunicare con gli altri, ma l’abitudine ad un contatto superficiale e rapido, non permette l’emergere di contenuti ricchi di significati che renderebbero più intrigante la “conversazione”. Quando qualcuno ci guarda insistentemente, la prima cosa che si pensa è: “cosa vuole?”. Il guardare diventa allora un chiedere ed in genere, si chiede ciò che non si ha o non si è; lo sguardo è così un’esigenza di ampliare, in ultima analisi, ciò che siamo. Avere uno sguardo vago, equivale al voler cercare questo ampliamento, in un posto che non sta all’esterno di noi, ma dentro e come dicevamo, questo è un atto di presunzione poichè va contro la nostra primordiale natura: quella relazionale.
Permettetemi ora di maltrattarvi un po', basterà qualche parolaccia per catturare la vostra attenzione, dimostrando in questo modo che l’aspetto relazionale della vita è ciò che ci interessa di più, anche se in genere di questa verità non ne facciamo tesoro. Dire una parolaccia immotivata, al di fuori di un contesto che potrebbe giustificarla, significherebbe scostumatezza gratuita, ma io sto creando per voi un contesto per giustificare, anche se solo apparentemente, ciò che sto per dirvi. Se pensate che potreste sentirvi turbati da qualche parola “fuori posto”, vi sconsiglio di continuare la lettura, fermatevi al punto, cioè ora.
Bene, se siete qui, vuol dire che siete dalla mia parte o forse siete solo curiosi. In tal caso, la vostra curiosità è giustificata dal contrasto stridente che si genera dalla contrapposizione dei due “toni” del mio discorso: l’uno serioso e rispettabile o razionale, l’altro sbarazzino, giocoso o se preferite, infantile. E’ questo contrasto che vi seduce soprattutto perchè è un simbolo di completezza e la completezza ci strega e ci appaga. Se siete ammaliati è perchè la vostra Ombra è stata agganciata, l’altro lato della personalità, quello che mi risponderebbe se io vi insultassi è stato sedotto dalla vicinanza dei contrari cioè dal simbolo. Lo so, ormai state aspettando di essere insultati, ma questo significa che tra noi è nato un vero e proprio rapporto, un feeling che ci permette di affrontare con audacia i prossimi due concetti: quello del male e quello della creatività. Il male è l’assenza del simbolo, la mancanza cioè di un rinvio a qualcos’altro e questo altro è la ricomposizione, il riconoscimento, l’unione o se volete il senso. Il simbolo unisce, mette insieme ciò che è separato, un po' come l’interpretazione crea nessi, rinvia, evoca un’altra parte che però -e qui sta il punto- non è convenzionale per la nostra razionalità. Il simbolo ignora la razionalità, la supera e perciò ci salva. Ci salva dal male e lo fa generando una tensione (pensate alla vostra curiosità) tra opposti che apre alla trasformazione. Pensate allora ad una parolaccia e vi salverete!... Accorgersi però della presenza del simbolo, dipende dal nostro atteggiamento osservante, dalla nostra capacità di abbracciare lo sconosciuto che è in noi, dalla possibilità di contattare l’Ombra, e qui subentra la creatività. Creare significa dialogare con l’Ombra (appunto dicendo parolacce...) e questo lo si può fare attraverso una chiave interpretativa, un codice simbolico. Dov’è la fregatura? Sta nel fatto che il codice simbolico è inesauribile e per giunta personale cioè prodotto dal nostro inconscio personale oltre che da quello collettivo (che rende il simbolo in parte universale). Il simbolo ci cattura perchè rimanda all’inconscio dove uno dei due opposti è sepolto ma anela alla ricomposizione cioè alla trasformazione; siamo al dunque del nostro discorso: la relazione simbolica. Questi due termini affiancati sintetizzano tutto il discorso fin qui, infatti, la relazione creativa non può che essere simbolica essendo la creatività un collegamento tra processo primario e secondario, sogno e realtà, Io ed “altro”; riparando una scissione ontologica, condensando il soggettivo con l’universale.
Ciò che la creatività produce è, detto semplicemente, una “sorpresa” vale a dire una combinazione di dati in prospettive nuove, provocando una “scoperta” dell’ “altro”. L’incapacità di creare simboli coincide pertanto con la patologia, mentre si mantiene relativamente sano chi conserva un canale comunicativo con l’inconscio, attraverso la dimensione simbolica in cui il bene e il male, la parola razionale e la “parolaccia” si trovano vicine e in relazione. Questa relazione viene solo avvertita, direi sospettata, ma non è mai esplicita e per questo è seducente: se io vi mando a quel paese, voi sicuramente leggerete ancora un po' ciò che scrivo. Infatti il male è estremamente seducente ed anzi è amandolo che in fondo amiamo noi stessi. Certo, la stessa cosa vale per il bene. Ma il male ci seduce perchè promette una infinita completezza soddisfacendo il nostro più intimo desiderio, quello della totalità. I simboli sono perturbanti perchè in essi avvertiamo la presenza di qualcosa di tremendo, satanico, ma allo stesso tempo divino: qui troviamo vita e morte. E come si può amare la morte? Può sembrare strano, ma noi abbiamo l’esigenza di farlo e direi che, per tornare alla metafora della parolaccia, di tanto in tanto lo facciamo bene: la amiamo.
Siete un po' perplessi? io si.




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