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CARDIOPSICOLOGIA
Come tenere in vita il cuore

A cura del Dr. Roberto Ruga


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Di cosa si occupa la cardiopsicologia?

La cardiopsicologia parte dall’assunto che vi sia una stretta relazione tra il corpo e la mente, quindi, una correlazione tra le emozioni profonde di una persona e il suo sistema cardiovascolare. E’ per questo motivo che è così importante migliorare il proprio stile di vita evitando stress, ansia, ostilità, riducendo così il rischio di cardiopatie.


Quando serve l’intervento del cardiopsicologo?

Un infarto coglie sempre di sorpresa la persona. Essa si sente come una “sopravvissuta” che aspetta con angoscia o fingendo indifferenza, il prossimo infarto. L’intervento psicologico, in questi casi consigliabile, serve anche quando una persona avverte dei sintomi che fanno pensare al cuore ma non va dal medico per paura di quello che potrebbe dirle. Il confronto con lo psicologo serve a dare uno sguardo ai meccanismi mentali che hanno promosso, consolidato e perpetuato la condizione attuale del paziente, dandoci un taglio!


Cosa offre il Servizio di Cardiopsicologia?

Il servizio di cardiopsicologia mira a creare e promuovere nel paziente quelle condizioni psicologiche ottimali, per poter affrontare, quanto più serenamente possibile, l’intervento chirurgico e, successivamente, il decorso post-operatorio. La finalità dei colloqui è quella di migliorare lo stato di benessere psico-fisico mettendolo in grado di affrontare al meglio la malattia, promuovendo un senso di fiducia nelle proprie capacità e un atteggiamento collaborativo, grazie al quale l’individuo si fa carico del proprio stato di salute, assumendosene la responsabilità con la collaborazione supportiva della famiglia.


In cosa consiste l’aiuto psicologico?
  1. Aiutare il soggetto a convivere con la malattia, acquisendo in maniera organizzata le competenze psicologiche necessarie a gestirla nella vita quotidiana.

  2. Promuovere una conoscenza e una successiva elaborazione delle emozioni suscitate dalla malattia e dei sentimenti ad essa connessi.

  3. Aiutare la persona a prendere coscienza dei propri meccanismi difensivi (negazione della malattia, collera, rassegnazione, depressione, ansia).

  4. Promuovere l’adozione di comportamenti “cardiosalutari” previsti dal Programma di Riabilitazione Cardiologia.


Cosa significa ascoltare empaticamente l’altro?

Significa creare un’atmosfera di sostegno centrata sul paziente, esplorando i suoi conflitti e le sue difficoltà, stando sempre attenti a sviluppare un ascolto riflessivo ed un’atmosfera di accettazione non giudicante, che favorisce la comprensione ed il miglioramento delle sue capacità di adattamento alla malattia. E’ molto importante evitare le contrapposizioni, per ridurre al minimo il livello di resistenza del paziente e quindi favorire il cambiamento, attraverso un progetto condiviso, che lo apra a nuovi percorsi di vita.
La cosa che più conta è sempre quella di offrire ai soggetti malati ed ai loro familiari un luogo e un tempo per rielaborare il senso e lo scopo della loro vita, modificata dall’avvento della malattia, stimolando e motivando il loro forte bisogno di rinnovamento e la loro esigenza di nuovi modelli comportamentali. Accogliere la persona e le esperienze che porta con sé, significa offrirle un “tempo” per raccontarsi e dare voce alle proprie richieste. L’ascolto autentico è apertura verso l’altro, senza pregiudizi e senza filtri, è interesse per i suoi pensieri e le sue opinioni, è rispetto per la sua sofferenza, per l’imbarazzo di esporsi, per la fatica di raccontare il dolore, ma è soprattutto comprensione di quel dolore e del bisogno di poterlo condividere.


Vi possono essere problemi di auto-accettazione dopo l’intervento?

Si. E’ per questo che bisogna lavorare insieme per migliorare l’espressività della propria sofferenza emozionale e anche la non accettazione del corpo, reso “diverso” dalle conseguenze negative della malattia. Si cerca quindi di insegnare al paziente ad accettare anche le eventuali tematiche depressive che possono affiorare e a saper ascoltare, accogliere ed elaborare il pianto e la disperazione, in un percorso di auto-accettazione.


Quanto conta essere informati?

Conta moltissimo, ma non si tratta di generica informazione, cioè di una semplice trasmissione di conoscenze, che può avvenire efficacemente anche attraverso l’uso di materiale cartaceo o di audiovisivi. Si tratta, al contrario, di aiutare il soggetto a convivere con la malattia, acquisendo in maniera organizzata le competenze necessarie a gestirla nella vita quotidiana. Questo implica la conoscenza dei suoi sintomi, delle emozioni da essa suscitate, la conoscenza dei meccanismi di difesa e delle strategie psicologiche che il soggetto utilizza per cercare di gestire queste emozioni, l’acquisizione di un senso di autoefficacia, la ripresa della vita familiare e lavorativa della persona, e l’adozione di comportamenti “cardiosalutari” previsti dal programma di Riabilitazione Cardiologica.


E’ possibile sognare durante l’intervento?

Si, è possibile. Ciò è dovuto al fatto che per l’anestesia possono essere usati farmaci ipnagogici (che favoriscono i sogni). Se un sogno viene prodotto dalla mente e anche ricordato, esso non sarà “casuale”, ma in qualche modo collegato alla situazione psicologica e reale che il paziente sta vivendo.
Piuttosto raramente può succedere che il paziente faccia sogni di morte che sono suscitati dal fatto che il suo corpo viene penetrato dal bisturi e la sua gabbia toracica venga divelta per permettere a qualcuno di “entrare” dentro di lui e “salvargli la vita”. Tenendo conto della cosiddetta coscienza intraoperatoria, la mente inconscia del paziente (quella profonda) può, in taluni casi, produrre un’immagine onirica a sfondo drammatico: il cardiochirurgo mi sta uccidendo! Al risveglio, il paziente non distingue ancora bene la realtà dal sogno e trovandosi ancora in uno stato dissociato per l’effetto residuo dell’anestesia, alla vista del cardiochirurgo che lo ha operato, potrebbe reagire con un inspiegabile attacco di panico. Questi attacchi d’ansia sono transitori e ben presto, con l’uscita dalla fase dissociativa, il paziente tornerà ad essere perfettamente presente a se stesso e in gran forma.


Esiste una relazione tra carattere e rischio d’infarto?

Si, esiste la cosiddetta personalità del cardiopatico, cioè un modo di essere che espone la persona ad un rischio maggiore di andare incontro a problemi cardiologici.


Tutti i cardiopatici hanno lo stesso carattere?

Non proprio: “personalità coronarica” è un termine coniato già negli anni ’40 per quelle persone con squisita tendenza alla perseveranza nel lavoro, con scarsi interessi extralavorativi, spesso con un forte impulso a dominare; persone, però, che tuttavia lamentavano una certa insicurezza nella loro vita interiore. Ulteriori ricerche hanno permesso di distinguere altri profili di personalità predisposte o “a rischio” (A e D):
  1. “Personalità di tipo A”: si tratta di un complesso di comportamenti ed emozioni riscontrabile in persone che si sentono cronicamente in lotta, in quanto tendono a raggiungere quanti più obiettivi nel minore tempo possibile, e si contrappongono costantemente alle persone che pongono ostacoli alle loro intenzioni. I tratti tipici del comportamento di “tipo A” sono: competitività, lotta per il successo, ambizione, aggressività, ostilità, irrequietezza, vigilanza, linguaggio esplosivo e rapido, tono di voce alto, tensione dei muscoli del volto, intolleranza, necessità di controllo sull’ambiente, senso di urgenza del tempo, alti livelli di performance. Questa costellazione di emozioni e comportamenti finisce per costituire un vero e proprio stile, un modello che il soggetto adotta automaticamente per fronteggiare le esigenze di un ambiente che lui percepisce come antagonista e che è intenzionato a controllare. A questo tipo di personalità si contrappone in maniera speculare e opposta la personalità di “Tipo B”.

  2. “Personalità di tipo B”: individui tendenzialmente più sereni e rilassati. Essi percepiscono il risultato del loro lavoro come appagamento, ricevendone emozioni positive. Sembrano proprio l’immagine speculare dei tipi A, ma non per questo si tratta di persone meno sveglie e produttive: sono semplicemente caratterizzate da meno eccessi, minore tensione e, invece, più pacatezza nell’adattamento alle esigenze dell’ambiente. Sia sul piano lavorativo che su quello privato, il “Tipo B” si associa ad una migliore qualità della vita, rilevabile in un minor consumo di tabacco e alcool, maggiore attività fisica, migliore alimentazione, minore tensione ed aggressività, minore competitività, maggiore capacità di adeguarsi a tollerare le diversità degli altri, ridotta importanza del “controllo” in tutte le situazioni, relativa indifferenza al consumo e all’acquisto di cose inutili.

  3. “Personalità di tipo D”. Si tratta di una persona che prova delle emozioni “negative” (depressione, ansia, rabbia) e le reprime cronicamente. E’ un dato acquisito che la repressione cronica delle proprie emozioni e le manifestazioni depressive sono potenti fattori psicogeni, in grado di contribuire sia allo sviluppo di ostruzioni coronariche, sia al loro aggravamento, fino allo scatenarsi di eventi ischemici acuti. La descrizione del “tipo D” corrisponde a quello che comunemente ci appare come un individuo cronicamente “stressato”: è pervaso da preoccupazione e insicurezza, e cova, inoltre, sentimenti di tensione, ansia, rabbia e tristezza. Nei comportamenti questa persona tende ad essere inibita, insicura in presenza di altre persone, è poco assertiva e non ha molta propensione alla conversazione: la sua strategia è il ritiro, ha difficoltà a manifestare le proprie emozioni e si tiene tutto dentro.


Quali sono le tecniche psicologiche più efficaci?

In molti casi, un percorso di apprendimento di tecniche di gestione dello stress e/o di tecniche di rilassamento, può rappresentare un valido aiuto sia nella prevenzione di disturbi psicosomatici in genere, sia nel miglioramento della propria salute mentale e del benessere psico-fisico.


Di cosa si parla durante un colloquio con il cardiopsicologo?

Il primo incontro con il paziente si basa, essenzialmente, su un colloquio clinico volto a raccogliere informazioni generali, dati anagrafici, condizioni socio-culturali, aspetti medici, valutazione delle relazioni familiari, consapevolezza e conoscenza relativa alla propria malattia, valutazione del rapporto con il team curante e con la struttura ospedaliera, aspettative e richieste, percezione del presente, del passato e del futuro, vissuto religioso, valutazione conclusiva, breve profilo di personalità sulla base di specifici test.
Lo scopo iniziale è quello di avere una immagine mentale immediata circa le modalità della persona di porsi di fronte ad una fase della sua vita in cui il cambiamento fisico, emotivo e sociale è prorompente. In un secondo momento si andrà ad esplorare il senso di rassegnazione rispetto agli eventi negativi della vita.


Che bisogno c’è di consultare un cardiopsicologo?

Al fine di salvaguardare la nostra salute e la nostra felicità è importante attribuire la giusta attenzione non solo ai problemi del corpo, ma anche ai disagi della psiche. Il bisogno di consultare uno psicologo può rispondere a diverse motivazioni, da quelle più semplici a quelle più complesse: avere un orientamento e un confronto, acquisire una migliore conoscenza di sé, risolvere un’insicurezza, guarire un disturbo psico-fisico, oppure superare una paura, prima che diventi un problema più grande.


E se si ha paura di fare le scelte sbagliate?

Quando non si conoscono le proprie potenzialità e si ha paura di fare le scelte sbagliate, può essere utile confrontarsi con qualcuno che sappia aiutare a riconoscere le attitudini personali e a sviluppare la giusta motivazione per realizzarle. Orientare, significa quindi, rendere la persona più capace di investire tempo ed energie su se stessa, più consapevole degli obiettivi che intende raggiungere e più responsabile delle conseguenze che possono derivare dalle proprie scelte, aiutandola ad affrontare con fiducia il cambiamento.


Come si dà sostegno a una persona?

Dare aiuto alla persona in difficoltà con un intervento di sostegno, significa accompagnarla in un percorso di conoscenza di sé che, attraverso la relazione empatica con lo psicologo, le consenta di acquisire piena consapevolezza dei propri bisogni ed emozioni e di comprendere i propri limiti, intravedendo in essi uno stimolo a dare il meglio di sé. Ecco che il sostegno, prima di essere una soluzione al problema presentato, è valorizzazione della persona, del suo “star bene” e dei suoi “punti di forza” necessari per rispondere alle richieste e alle responsabilità della vita. Lo psicologo non si sostituisce alla persona nel prendere decisioni, ma dà spessore alle sue riflessioni e rinforza le sue capacità di ragionamento.


Cos’è la fase psicologica della “negazione”?

E’ quella fase in cui il malato rifiuta che l’evento della malattia possa aver colpito proprio lui (meccanismo di difesa) e la sua mancata accettazione porta ad un conseguente isolamento psicologico. In tale fase il paziente non richiede spontaneamente un aiuto. A questa fase ne segue spesso una di collera in cui il malato può mostrarsi irritato o scostante verso le persone vicine: familiari, amici, psicologo compreso, che ritiene più “fortunati”. Anche in questa fase il rischio dell’isolamento è molto elevato e la collaborazione del paziente è ancora scarsa. Segue di solito una fase di contrattazione, nella quale il malato abbandona la collera e cerca di migliorare la sua qualità di vita, assumendo atteggiamenti più benevoli verso i familiari e, nell’intervento psicologico, acquista un atteggiamento collaborativo.
Segue a volte una fase di depressione, durante la quale il paziente comprende di aver ridotte le proprie abilità e potenzialità di vita ed entra in un doloroso processo di rassegnazione per la perdita delle cose passate, che non riesce più a vivere nel presente. Pur consapevole della necessità del sostegno psicologico, si riduce la sua forza di volontà, le energie e l’adesione terapeutica. Infine subentra la fase finale dell’accettazione: il paziente abbandona la collera e la depressione, per raggiungere un atteggiamento ottimistico e una migliore partecipazione al processo riabilitativo.


Quali sono in dettaglio gli scopi della psicoterapia?

Stimolare nel paziente l’attitudine a risolvere i problemi e cioè la sua capacità di analizzare le difficoltà e di trovare il modo giusto per superarle, potenziare la sua capacità di comunicare, incoraggiare la sua capacità di avere relazioni sociali adeguate e soddisfacenti, migliorare quindi l’equilibrio personale del soggetto potenziandone autostima e amore verso se stesso.


Perché proprio a me?

E’ un’esclamazione tipica dei pazienti, insieme a frasi del tipo: “non è giusto, non me lo meritavo!”. Queste parole esprimono la sofferenza psichica dei pazienti affetti da patologie organiche severe e/o croniche. Ciò significa, molto spesso per lo psicologo, lavorare in assenza di una richiesta di aiuto esplicita. Le ripercussioni psicologiche della malattia, anche se di notevole importanza, rimangono sullo sfondo o tendono ad essere sottovalutate, perché il rischio vitale si impone all’attenzione. La paura di morire o il timore di riscoprirsi menomati lasciano però l’individuo in una situazione di completa vulnerabilità emotiva, che amplifica il senso di estraneità rispetto alla propria storia. Da qui l’importanza di un ascolto autentico.


Chi c’è a casa che la aspetta?

Questa è una classica domanda che viene effettuata al paziente ricoverato in Clinica. Serve a ricordargli che a casa ci sono persone che lo aspettano, e a suscitare in lui una più forte motivazione alla ripresa. E’ una domanda molto semplice ma di grande efficacia perché riporta la persona nel presente (nel qui ed ora) e gli ricorda chi è: una persona importante per altre persone.


Quali sono gli ingredienti base della ricetta del benessere cardiaco?

Flessibilità, nessuno schema fisso e una buona dose di leggerezza. Spesso per chi soffre di patologie cardiache le cose sono bianche o nere, le scelte devono essere nette, le decisioni definitive. Inutile dire che dietro a questa apparente sicurezza c’è la ricerca di punti fermi che sostengano una volontà vacillante e conflittuale. Anche nella vita quotidiana il cardiopatico tende a scandire il tempo in modo piuttosto rigido, distinguendo il momento del divertimento da quello del lavoro, quello del piacere da quello del dovere. Il risultato è una forzatura che spesso impone ritmi e scansioni innaturali che dividono la vita in compartimenti stagni. Bisogna allora imparare dal cuore, cercando di essere meno rigido e programmato: può essere divertente anche lavorare, ci si può rilassare anche impegnandosi a fondo in qualche attività, si può trovare piacere nei doveri di ogni giorno.






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