Il suffisso “eco” dal greco oikos significa dimora, casa, o ambiente in cui si vive. Eco è per definizione legato ad un luogo e dunque, avere un approccio psicoecologico, significa essere dentro il teatro della vita, partecipare in prima persona al flusso degli eventi. Lo psicologico infatti non è scisso dal fisico, laddove il luogo diviene corrispettivo reale di un evento psichico, a cui quel luogo si incastra per contingenze materiali.
Eco è quindi anche un “ritorno”, il ritorno di (e in) una scena. Ma di quale scena si tratta? Potremmo dire, in ultima analisi e in maniera molto sintetica, che si tratta della scena primaria che si ripropone. Ne consegue una domanda: sono dunque, terapeuta e paziente destinati a perpetrare il danno originario? E, il danno è necessariamente un incesto?
Per cercare di argomentare una possibile risposta, caliamoci nella filosofia del nevrotico e poniamoci questa domanda esistenziale: di chi mi innamoro? Se lo chiede il paziente che va in terapia e se lo chiede anche il terapeuta, entrambi con un diverso grado di consapevolezza aderente alla cultura e alla sensibilità di ognuno.
Insomma in questa “eco” vi è della seduzione inconscia sicuramente. Il luogo nuovo del setting rappresenta, per così dire, una promessa di assoluto. Di certo, il paziente che va in terapia cambia luogo, cambia i suoi luoghi abituali, a partire da un luogo fisico (che esiste nella realtà). Egli trovandosi altrove, inizia il suo essere altrove e al cospetto di un altro, a partire da un luogo. Questo è l’imprinting della psicoterapia: luoghi altri. E, poiché qui si fa questione di una fisicità di luoghi, si tratta giocoforza di “eco”. Detto diversamente, eco è l’aspetto materiale, concreto, reale, che ingenera e ispira, è quella poltrona, quella stanza, quell’odore. Ma noi sappiamo anche che i luoghi riecheggiano, o meglio, nei luoghi compaiono i “fantasmi” e la terapia è il luogo elettivo in cui transitano (o si trasferiscono) codesti fantasmi. Il luogo del setting li accoglie e li amplifica.
Permettetemi ora un esempio personale. L’ultima volta che vidi Aldo Carotenuto, un anno prima della sua scomparsa, fu per aiutarlo a svolgere gli esami ai suoi studenti. Finito il piacevole compito, salutai il Professore che mi chiese la cortesia di portare i pesanti registri, contenuti in una grande busta di plastica, a casa sua. Accettai molto volentieri e pensai anche che avrei potuto rivedere la sua abitazione a distanza di anni dalla fine del mio percorso terapeutico con lui. Così, poco dopo entrai in quel luogo. Ma non era lo stesso di un tempo. Certo. Si era un po’ svuotato di fantasmi, ed era diventato un luogo quasi normale. Pensai subito che la richiesta inoltratami dal Maestro non riguardava solo il problema della pesantezza (relativa) di quei registri, ma l’opportunità per me di rivisitare quello che era stato un tempo il mio setting, per scoprire forse qualcosa che il Maestro auspicava. Che, con il tempo i luoghi si svuotano di enfasi e di contenuti psichici.
Potremmo a questo punto dire che, in una visione appunto psicoecologica, si va in terapia per disinvestire i luoghi abituali e investirne di nuovi, a partire appunto da un luogo nuovo, il setting, che diventa inizialmente familiare e infine si svuota di contenuti psichici. L’idea del trasloco rende un po’ il concetto: si tratta di cambiare casa più di una volta.
Un discorso psicoecologico è un discorso che implica sempre un contesto, uno scenario, un palcoscenico. Questo luogo non è solo psichico ma anche reale. L’ecologia è lo studio di un essere vivente nel suo contesto naturale, immerso nel suo ambiente. Dunque, è il luogo che fa la differenza. E il luogo è il setting. In origine c’è il setting: il primo luogo nuovo, l’ “origineadesso” della trasformazione.
Ora, si sa che i luoghi possono essere sia interiori che reali, in entrambi i casi essi contengono sempre una eco-logica, una logica cioè applicata al luogo. Il paziente che entra nella stanza della terapia, al cospetto dello psicoterapeuta, occupa un luogo reale nel quale riecheggiano altri luoghi. Questo può succedere grazie al transfert che amplifica il processo. Il transfert stesso implica un passaggio da un luogo ad un altro. Tale facilità di ingenerare passaggi nell’altro, caratterizza l’arte dello psicoterapeuta. Laddove Arte è però anche “assistere” ad un evento, saperlo cogliere, infine utilizzarlo per scopi terapeutici. In effetti è la coppia che fa questa traduzione in virtù anche di un farsi “luogo” e dimora.
Qualunque discorso il paziente porta in analisi, sottende un luogo che è un po’ come una casa che lo contiene e che deve essere preso in considerazione dal terapeuta. Questi si chiede infatti sempre “chi parla?” e “da dove parla?”. Insomma, qui si sta facendo anche questione di maschere e di ruoli. E non c’è maschera senza il suo luogo, il suo palcoscenico. Ecco, palcoscenico è un termine ecologico, come alcuni setting, in particolare quello dello psicodramma o della bioenergetica; non certo quello di stampo psicoanalitico, nel quale sono solo le parole e non le azioni ad essere di scena. Ciò ci porta a proporre e definire il concetto di ecotransfert come quella sottospecie di transfert che si genera e scaturisce dal luogo che, diciamo, è propedeutico all’azione e al successivo instaurarsi di un nuovo affetto. Nel mio libro su Aldo Carotenuto, racconto di una seduta particolare, svoltasi nella cucina del Professore, il quale mi serviva un cappuccino. L’importanza del luogo-azione, con tutti i suoi prodotti scenici è qui centrale nella costruzione della metafora nutritiva, perfettamente adeguata ad un momento particolare del mio percorso psicoterapeutico. Non un luogo immaginato o sognato, rievocato e analizzato, ma un luogo reale. Agito. Quando è di scena la realtà, si può a mio avviso parlare di ecotransfert e non per il gusto di aggiungere nuovi termini al già forbito lessico della psicologia, ma per indicare un versante della radice di un affetto così essenziale per un percorso psicoterapeutico. Sono tanti gli spunti che si possono trarre dal racconto complessivo della mia psicoterapia con Aldo Carotenuto, nella quale luoghi e azioni si traducono spesso in gustosi aneddoti contenenti sempre una morale, letta nell’interesse di quel paziente che sono stato, in linea oggi con un discorso metapsicologico avanzato tanti anni or sono, proprio dal mio Maestro.
Abbiamo detto che eco significa dentro a un luogo. Dunque dentro ad un campo di forze. Un equivalente psicologico di questo stato è il concetto di partecipazione: chi partecipa è dentro al gioco, cioè soggetto alle forze del campo. Egli è nel luogo del “divertimento”. Di contro, l’escluso ne è fuori. Ora, chi è l’escluso? L’escluso è colui che non può partecipare perché soggetto al divieto. E’ il bambino di fronte all’oggetto dei suoi desideri: la madre. Quella madre che è di un altro. Se per tutta la vita inseguiamo un sogno di partecipazione (alla vita pubblica, politica, morale che sia) è perché per tutta l’infanzia abbiamo desiderato “l’impossibile”, restandone fuori. Ecco allora che quel suffisso “eco” seduce chi si sente escluso, poiché incarna la promessa di partecipazione “reale” a qualcosa che si svolge concretamente sotto gli occhi di qualcuno significativo, che nel discorso psicoterapico non può che essere il terapeuta stesso. E’ lui, infatti, che apre i giochi e consente l’ingresso del paziente nel luogo sacro, nel luogo dei luoghi. E lo fa con arte, inscenando ad arte situazioni propizie che odorano di antico, che ripropongono nodi irrisolti, invitando questa volta il paziente nel ruolo di primo attore. Il miracolo dell’ecosetting è questo: magia di un luogo che travalica il tempo e invita ad entrarvi, laddove un tempo l’invito fu quello opposto ad uscirvi. Lo psicoterapeuta trasforma il “vai via” (genitoriale) in “vieni…”. Dove? Venire dove? E’ a questo punto che il rischio è massimo perché vi è un pericolo: quello della letteralizzazione del simbolo. Continuare infatti a sostare su di un piano realistico quei “giochi” che accadono realmente è fuorviante poiché ciò di cui necessita il paziente è una elaborazione metaforica di ciò che accade: una concettualizzazione degli eventi e non la loro reificazione. Dunque ci vuole un’apertura, laddove la letteralizzazione sarebbe una chiusura messa in atto da un terapeuta selvaggio. Selvaggio qui è sinonimo di primitivo, poco evoluto e non raffinato, troppo semplice e banale.
L’importanza del gioco che “eco” propone col suo esprimere realtà e fisicità, non deve essere fraintesa né perseguita ad oltranza. Dal gioco che ispira, si deve passare alla riflessione introspettiva, al cospetto di un altro, il terapeuta di stampo eroico. E’ a questo punto che il gioco si sposta su di un piano più ampio della realtà vera e propria, quella che si trova fuori lo stanzino della psicoterapia, quella che investe gli altri. Tutti gli altri. Ci si accorge allora che “eco” è stato solo un microcosmo, una molecola di realtà osservata al microscopio della terapia. Ora, dal micro si deve passare al macro. Se questo passaggio non avviene, il paziente resta prigioniero della seduzione terapeutica e dell’illusione (selvaggia) che l’aver partecipato ad un piccolo gioco possa sprigionare un grande piacere. Ma il grande piacere sta fuori, appartiene ad un “eco” più vasto. A mio avviso è per questo motivo che Jung introduce la metafora delle nozze, come apertura all’altrove e all’altro. Il terapeuta è un ponte. Non una casa. Il ponte conduce da un luogo ad un altro, permette spostamenti d’accento sulle cose, sui simboli, sugli oggetti della proiezione; esso sposta i riflettori sulla realtà, apre alle sorprese e agli incontri. Laddove invece la casa diventa prigione. Naturalmente la casa è il luogo di partenza. Si parte dall’utero e gli orizzonti si spostano di volta in volta. Eco è anche orizzonte, un orizzonte variabile.
Abbiamo detto che con eco la realtà è di scena. Significa che nel corso della terapia il terapeuta deve cercare di tradurre il discorso del paziente in azioni che implicano un frequentare nuovi luoghi. Il terapeuta indica luoghi, spinge il paziente verso quei luoghi a lui estranei. Vi sono tanti esempi che possono indicare concretamente come il terapeuta fa questo. Nel mio libro su Aldo Carotenuto ne racconto molti.
Ora, in un percorso terapeutico spesso succede che il paziente regredisca. Accade da sé, ma ci sono situazioni che facilitano il processo. Ad esempio, nel corso di una seduta ipnotica il terapeuta può chiedere al paziente di ricordare un evento passato, di descriverlo accuratamente, di sentirsi e immaginarsi in quel luogo fisico e temporale e dunque di essere la persona che si è stata. Si torna indietro, appunto, per ripercorrere emozioni, sensazioni, vissuti. E una volta lì, in quel luogo, dentro al ricordo, cosa si fa? Una delle possibili risposte è che si dimentica. Si, proprio così, si dimenticano fatti e situazioni che inutilmente e inconsapevolmente gravano sul presente. Al “risveglio”, quando il paziente sarà tornato allo stato di coscienza vigile, avrà dimenticato ad un livello più profondo, un episodio spiacevole e “indigesto” della sua vita e si sentirà quindi più sollevato, senza avere ricordo di quell’antico evento. Dimenticare è un metodo che funziona solo se si ripercorre un luogo associato ad un’emozione. L’intero processo è molto più potente ed incisivo se la persona è disposta a lasciarsi andare alla regressione. Non solo una regressione circostanziata dall’induzione, ma una regressione generalizzata al periodo terapeutico. In sostanza, se la persona è già regredita nel corso della terapia, sarà ben disposta a ritornare nel suo passato all’interno di una induzione.
Raggiunta questa condizione, il paziente è pronto per un nuovo “imprinting” genitoriale. Ma questo come avviene? Avviene principalmente attraverso un luogo. Di certo si tratta anche e soprattutto di un luogo psicologico, interiore. Ma se vogliamo entrare in un’ottica psicoecologica, dobbiamo ipotizzare che il luogo sprigioni tutta la sua suggestione sulla sensibile psiche del paziente. Il luogo è la scena significativa, evocativa, catartica. E’ la scena che offre un’opportunità di crescita. Una grande promessa, questa, per il paziente.
Entrare in una scena è semplice, basta muovere per così dire un passo e ci ritrova coinvolti, avvolti, circondati. Uscirne è più difficile. Entrare in un setting è facile, ci si siede su di una poltrona, si osserva la stanza, si ascoltano e si dicono parole: tutto accade intorno e dentro il paziente che presto fa l’abitudine e sviluppa una dipendenza al benessere che la seduta gli regala. Uscirne è più difficile. Eppure ogni volta il paziente entra ed esce fisicamente dal setting, ma se con la mente, tramite le fantasie lui ritorna in quel luogo, allora è come se fosse ancora lì. Il luogo è tutto per lui, per il suo modo regredito e superficiale di considerare la situazione. Egli immagina luoghi e scene che accadono nei luoghi. Ora, quando nelle sue fantasie abbondano i luoghi, è probabile che una regressione sia in atto. Quando invece le fantasie hanno un carattere più astratto e sono meno legate ad uno spazio fisico, allora il paziente si sta elevando dal suo precedente stato e la sua mente inizia a svettare al di sopra del suo abituale orizzonte.
Le fantasie riferite, in tal senso sono un materiale più prezioso ancora dei sogni, poiché in esse il desiderio è “ricamato” dal paziente, che attraverso quel lavorio cerca di possedere la scena. Si tratta proprio di possedere: un far proprio ciò che ancora è di un altro. Il possesso porterà poi, alla fine, al ritiro delle proiezioni e a un ritrovato tesoro interiore. Eco si dissolve, non importa più il luogo, non vi è più “altrove” da raggiungere, il desiderio non si radica illusoriamente nella realtà (non più come prima); il tempo diventa tutto il tempo e non vi è un dopo ricco di promesse poiché la persona vive nel presente, con meno angoscia.
Insomma, i luoghi parlano spesso di patologie, la loro assenza indica una migliore armonia interiore.
Chi legge freneticamente un libro, alla ricerca di risposte esistenziali, anela ad un “luogo”, è nelle mani di eco, ricerca setting pronti ad accoglierlo, ad incarnare promesse. Chi esce da un percorso psicoterapico ha, per così dire, meno fantasia.
Vista così, la psicoterapia non può che essere una disciplina dei luoghi, non solo dei luoghi della memoria, ma anche di tutti quei luoghi che il desiderio percorre, creando situazioni congeniali alla evoluzione interiore della persona.
La logica dei luoghi è stretta, non dà scelta né spazio: c’è il luogo giusto e quello sbagliato, il luogo della salvezza e quello della perdizione o dello smarrimento. In questa logica perdiamo sempre. E’ la logica dell’idealizzazione in corso, con le sue presunte impossibili scalate e la conseguente sfuggente realtà. La logica del non-luogo, invece, è una conquista contro natura: qualcosa di squisitamente psicologico.
Si ritira l’eremita dal mondo, abbandona i luoghi fisici e della mente, diremmo i luoghi dell’Io, con le loro illusioni.
Si, ma dove?
Il dove implica un “chi”. Un chi vecchio, da rinnovare. Allora il dove diventa dovunque. Dovunque il paziente evoluto si trovi, saprà adattarsi. Vivrà la sua vita accanto a chiunque, avrà un lavoro qualunque. Qui siamo oltre il viaggio stesso, al di fuori dalla stringente logica della meta da raggiungere e, forse, al di fuori anche del viaggio stesso. L’eroe romantico viaggia, anela, sogna, fantastica, calpesta luoghi e ne ricerca di altri. Oltre l’eroe troviamo il non luogo, il non eroe, l’uomo comune. Certo, quello che sta bene. Si parte da lui e si ritorna a lui, avendo dimenticato il lungo percorso che ci ha portati lì. Si tratta di questo in psicoterapia? Forse si. Si tratta di viaggiare per poi “dimenticare” tutti i luoghi e tutti i personaggi, psicoterapeuta compreso. Già, lo psicoterapeuta è uno che va dimenticato. Saranno contenti i bravi psicoterapeuti di questa definizione. Sapranno di cosa si tratta, poiché avranno a suo tempo fatto loro il concetto che mi suona come individuazione: un lasciar andare tutti gli attaccamenti, un dimenticarsi di chi si è figli.
Il mio Maestro Aldo Carotenuto diceva spesso che si impara (e sottolineava che bisognava conoscere tutto) per poi dimenticare.
Vi è come dicevo in apertura, un luogo dei luoghi, un luogo in cui tutto accade: il luogo del “divertimento” (per riprendere un noto ritornello di questi anni), assimilabile alla scena primaria vista con gli occhi del bambino. Insomma un luogo in cui tutto accade: violenza e amore. Vista dalla prospettiva del bambino, infatti, la scena primaria (i genitori che fanno l’amore) può risultare una scena difficile da gestire emotivamente, non avendo egli i codici adeguati per leggere quell’evento che a tutti gli effetti, potrebbe apparirgli un’aggressione. Dunque, prendiamo questa scena come modello (la scelta è giustificata dal fatto che si tratta di un modello universale e strutturale all’esistenza, nonché radice di molti tratti nevrotici) e usiamolo nella terapia: il risultato è che il terapeuta-genitore diviene colui che tradisce e abbandona, laddove il paziente (regredito) è il bambino che, non casualmente, si innamora di chi fatalmente lo abbandonerà: un rifiuto strutturale alla situazione stessa.
Posto il setting come naturale luogo del rifiuto, siamo consapevoli del fatto che ogni buona terapia dovrà affrontare il tema dell’abbandono e che un tale vissuto dovrà quasi necessariamente passare attraverso la nevrosi da transfert, che fa vedere il terapeuta come colui che abbandona il paziente, tradendolo, ovvero preferendo altri (pazienti) al suo posto. Insomma, “la” scena si ripete e grazie al transfert anche il luogo assume connotati arcaici. Ci sarebbero poi le fantasie incestuose (evidenti nel caso di diverso sesso tra terapeuta e paziente) a fare da corollario e a riproporre in termini fantastici il trauma che, come una profezia si avvera. Il modello è quello della seduzione e del successivo abbandono: sembra questo una sorta di “destino” a cui ogni psicoterapia non può sottrarsi.
In tutto questo discorso la frustrazione che il terapeuta sapientemente dosa e somministra (io direi ad arte) al paziente è supportata da “gesti” fisici che accadono nel teatro del setting. Qui, l’importanza del luogo è massima. E il luogo è un luogo di frustrazione (oltre che di accettazione). Deve esserlo, se vogliamo stare dentro il modello che stiamo usando, altrimenti, se il terapeuta iniziasse a colludere con il desiderio inconscio del paziente, si tratterebbe di incesto psichico. Morale della favola? Saltando subito alle conclusioni, la morale della favola è che il paziente deve dimenticare. Deve cioè affrancarsi, recidere l’antico legame e “normalizzarlo”: renderlo cioè un legame qualunque, aggiunto di una naturale dose di gratitudine verso il terapeuta. E’ il momento di uscire dal setting e tuffarsi nel mondo da “analizzati” cioè “sciolti” con esso, senza luogo, senza desideri. Questa condizione assomiglierebbe ad una sorta di morte… E in effetti è tutto un mondo vecchio che muore per fare spazio all’ancora inimmaginato, indesiderato, non ancora sognato: ora tutto inizia a cambiare.
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Si va in terapia per dimenticare. Certo, dopo aver ricordato (…il famoso studia tutto e dimentica!). Ecco allora che il terapeuta è colui che insegna a cancellare dalla memoria e a disinvestire luoghi. Non è inconsueto che il paziente racconti di aver visitato posti che non vedeva da tanto tempo e di essere andato in un certo luogo per vedere come fosse cambiato. Sempre, si ritorna nei luoghi. Ma la cosa interessante è che vi è un’ultima volta oltre la quale quel luogo non ci interessa più. Il sogno tipico che corrisponde a questa situazione psicologica può essere un percorso consueto che ad un certo punto si interrompe: figura un limite, una soglia, un precipizio dinnanzi al quale si può precipitare o spiccare il volo. E per volare ci vogliono un paio d’ali. Le possibilità di movimento che il volo permette sono di gran lunga maggiori rispetto alla superficie piana sulla quale il paziente metaforicamente si muoveva. A questo cambiamento di luogo corrisponde una mutazione nell’atteggiamento interiore. Si allarga lo spazio fisico e psicologico entro il quale si muove il paziente: l’energia si esteriorizza, si estroverte, esce allo scoperto e si radica nella realtà. E’ un processo inverso rispetto a ciò che succedeva prima, quando il paziente doveva necessariamente ritirare la sua energia che egli stesso riteneva mal riposta, reinvestendola nel suo mondo interiore, per dare inizio all’opera di scavo. Adesso, la direzione di questa energia è verso l’esterno della persona. Dunque, non più luoghi interiori fatti di ricordi, ma luoghi fisici. In genere lo psicoterapeuta non accompagna il paziente in questi luoghi esterni, se non metaforicamente, sostenendolo se necessario, quando questi si trova di fronte ad un compito/situazione nuova. Ma non il mio psicoterapeuta Aldo Carotenuto, per il quale le rigide regole del setting si piegavano ai suoi creativi progetti. Un eco-psicologo ante litteram?
La questione è questa: “eco” aiuta la terapia? E’ dalla parte del paziente? Direi di si. Lo è nella misura in cui il luogo è evocativo e il paziente sedotto. In tal caso lo psicoterapeuta diviene Maestro e il luogo acquista le caratteristiche di terra sacra sulla quale si svolge una prova iniziatica. Poco conta, naturalmente il luogo in sé, ciò che conta è l’atteggiamento interiore dei protagonisti, insieme dunque al loro proiettare e investire quel luogo. Insomma, magia dei luoghi, in virtù della capacità tipica del paziente di investire su di essi, a partire dall’investimento fatto sullo psicoterapeuta che avrà cura di trasmettere al paziente il godimento che quel luogo produce. E’ un po’ come se il Maestro mostrasse la strada all’allievo, facendo notare non tanto e non solo con le parole, che si tratta di una strada attraente, bella, ricca di promesse. “Vai lì”, così suona il messaggio tra le righe, una sorta di “alzati e cammina”. Già, la frase che Gesù disse a Lazzaro, contiene un luogo, e il verbo è di tipo cinestetico.
La psiche non può essere avulsa dal luogo, ma non deve neanche lasciarsi limitare da questo. Ecco perché il luogo deve venire solo alla fine di un percorso, quando ormai l’atteggiamento del paziente è quello del viaggiatore/viandante. Luoghi nuovi.
Cosa c’è alla base di un atteggiamento da viandante? Il sentirsi straniero ma non estraneo (vale a dire senza ansia), esploratore curioso, vagabondo tra le anime del mondo. E’ così che si esce da una psicoterapia, nutrendo una vera e propria attrattiva verso il mondo, verso i suoi luoghi e i suoi spazi, psicologici e reali.
Affinché un tale atteggiamento possa maturarsi nel paziente è d’uopo una psicoterapia eroica. L’eroe è colui che conquista la terra, possiede le sue qualità magiche, poiché fa propri gli spazi. Domina, infine governa. Il suo destino è entrare nella storia, quasi sempre in solitudine, poiché nessuno lo può seguire fino infondo, essendo l’unico a possedere qualità temerarie. Un termine definisce bene questo concetto: furore psicologico. Sì, furore. Che ha un non so che di accanimento, una certa dose di delirio, di furia e di passione, una componente di insoddisfazione rabbiosa, quella sana follia che rende il gesto impetuoso, una veemenza sostenuta dall’entusiasmo e una infantile e creativa eccitazione di fronte all’ignoto. Più o meno il furore psicologico è così: un opposto insomma dell’autocontrollo pacato e finto, con il quale il paziente si era rivolto a noi per essere curato, da non si sa bene cosa. Insomma, cosa cerchiamo, da pazienti e nel paziente? Cerchiamo la forza calda e dirompente della vita che pulsa energica, ruggente e febbrile, agitata, selvaggia, inconscia. Si va in terapia per far trionfare la saggezza dell’inconscio. Questo ha di bello l’eroe che si muove in maniera irrefrenabile e convulsa, prepotente e vivo come il corpo cavernoso che dà vita ad un orgasmo. Fuoriesce dall’utero-setting il paziente, proteso verso il mondo-madre da possedere. Il complesso edipico si estende al mondo e diventa un affare esistenziale. Esserne gettati dentro è il nostro destino. Di eroico vi è l’ampiezza della visione e il fatto quindi di considerare “madre” non la madre reale ma il mondo intero, psicologicamente vastissimo.
Detto altrimenti, si va in terapia per sperimentare il luogo dei luoghi, il luogo generativo per eccellenza: l’utero-vagina. Va da se che una terapia al maschile differisca alquanto da una terapia al femminile. I luoghi sono simili, gli atteggiamenti diversi. Il luogo, in definitiva è sempre l’Altro; l’atteggiamento può essere mascolino e femmineo, anche se cavalcando una logica integrativa le differenze si riducono. Detto freudianamente, in terapia si ricerca l’orgasmo. Non quello reale, ma quello che riguarda la psiche. L’eroe è uno che conquista, lo abbiamo detto. E conquista è un termine che si riferisce anche ai cuori degli uomini. Eroicità fa il paio dunque con apertura all’altro, desiderio, capacità di incorporare, introiettare, ritirare proiezioni. E’ sempre un discorso di (e sui) luoghi questo: psicoecologico. Non deve pertanto stupire la metafora sessuale dell’incontro, poiché questo, in primo luogo è fatto di confini “mobili” che si spostano, di Io che parzialmente si dissolvono lasciando spazio e cedendo terreno all’Inconscio, detto anche il non luogo.
La terapia è dunque un lavoro sui confini e sulla sana capacità di varcarli. Essa è un po’ come una “corda di violino tesa sul filo dell’orizzonte. Varca”. Quel varco rappresenta bene la nascita, lo sconfinare appunto, tipico del nostro eroico paziente.
Ora, il paziente uomo e il paziente donna, al cospetto di uno psicoterapeuta eroico, seguono strade differenti che dipendono anche dalla personalità del terapeuta. Se vogliamo tradurre questo discorso puramente psicologico in gesti terapeutici (prescrizioni, suggerimenti, consigli) dobbiamo pensare e ripensare anche in termini di luoghi e di come un luogo possa perdere i suoi confini. Così come la psiche si nutre e necessita di immagini, va da sé che l’efficacia della psicoterapia non possa prescindere da un discorso sui luoghi. Una teoria dei luoghi? Il setting sarebbe il primo luogo che incontra il paziente. Il luogo del suo perdersi, del suo smarrirsi. Dilatazione di confini. Da un punto di vista femminile (e come maschio, lo dico con uno sforzo di immaginazione, dunque impropriamente) si tratta di accogliere e lasciarsi attraversare da contenuti psichici nuovi. Da un punto di vista maschile (a me certamente più congeniale) si tratta di “prendere”, conquistare, strappare tali contenuti.
Esiste una psicoterapia al femminile e una al maschile. Esiste un farsi mamma del terapeuta e un farsi padre. In ogni caso esistono fasi.
Poniamoci ora questa domanda: cos’è il setting? E’ uno spazio da condividere. Condivisione implica partecipazione, o, anche, compartecipazione affettiva. Insomma, il luogo di un incontro che di conseguenza tenderà a cambiare un po’ i partecipanti. Eppure, il setting classico accoglie e risucchia in sé tutti i luoghi: essendo l’unico luogo possibile per la psicoterapia. Mentre, in un setting moderno, “variabile” si assiste a luoghi e situazioni diverse.
Cosa ha di terapeutico un luogo? Il fatto che è anche fisico: la sua fisicità. Essere dunque con il terapeuta nello stesso luogo, condividerlo, significa dare importanza al fattore terapeutico scaturito da una prossimità: da una vicinanza fisica. Insomma, il luogo fa scattare qualcosa, ingenera insight, emoziona, ispira e facilita nascite. Il luogo si alimenta dei respiri dei protagonisti, pulsa in virtù di una presenza che implica partecipazione ad un destino comune, che potremmo chiamare anche “condizione dell’essere gettati”. Il paziente si getta nel setting insieme a qualcuno e gode di questo gettarsi. Un po’ come il lettore preso dal libro che sta leggendo viene “morso” dalle sue parole. Non si apre mai impunemente un buon libro.
Aveva detto Freud che l’Io è in primo luogo un Io corporeo. Che occupa uno spazio e un luogo, aggiungiamo. Un luogo che lo sottopone ad un campo di forze psichiche cui non ci si può sottrarre, pena il ritiro di ogni proiezione e dunque la fine della vita stessa. La mente crea quel campo, illusoriamente rappresentato dal luogo, così come un corpo parla della psiche che contiene.
Conclusione: senza i luoghi non è dato vivere. La psiche pensa per immagini, ma ogni immagine si traduce in un luogo, a volte pregno di affetto. Una condizione in cui affetto e pensiero sono così vicini da essere quasi sovrapponibili, confluendo e identificandosi nella stessa persona è, ad esempio, l’innamoramento. Forse è per questo motivo che una tale condizione cambia la geografia dell’anima.
Il luogo, in definitiva è sempre l’Altro. E’ anche colui che ci strappa ai nostri abituali luoghi. Pensare la psiche in termini di luoghi, significa fare della psicoterapia l’occasione di un viaggio e, dei due (o più) protagonisti, dei “viandanti”.
In origine, e dunque all’origine della psicoterapia stessa vi è un incesto con il suo luogo ristretto. L’incesto (psichico) non può che ripetersi, poiché è quel linguaggio appreso dal paziente, che lo contraddistingue come l’accento di una lingua e gli dà un senso di appartenenza. In questa fase, paziente e terapeuta sono destinati a ripetere un originario copione che riguarda entrambi. Ma, il fatto che il terapeuta abbia più esperienza, avendo a suo tempo affrontato il problema, permette alla coppia di spostarsi lentamente in una posizione diversa, fino a indossare i panni e l’atteggiamento del viandante. Adesso, per il paziente appare necessario “tradire” per affrancarsi e per dirigersi verso nuovi orizzonti. Questo fa la terapia: mostra nuovi scenari, apre le porte e sposta l’attenzione. Insomma trasferisce, trasloca, elabora lutti e favorisce dimenticanze. Opera tagli sul marginale, riguardo all’inautentico, all’inessenziale, al futile, al passato.
Il metodo per fare tutto ciò è la condivisione-partecipazione empatica dei “luoghi”. Sinteticamente: empatia.
Jeremy Rifkin, guru della Green economy dice che l’empatia salverà il mondo. In sostanza afferma che sarà l’empatia, sentimento generoso delle nuove generazioni abituate alla democrazia trasversale della Rete (ecco un luogo!), alla condivisione attraverso Facebook, che salverà la Terra e l’umanità sull’orlo dell’abisso. Il miracolo avverrà dunque grazie all’empatia. L’uomo è un animale empatico, prova simpatia per il proprio simile, ne condivide dolore e gioia, è istintivamente solidale. Lo dimostra il fatto che un neonato scoppia in lacrime se sente un altro bambino che piange. Noi sappiamo che l’empatia è governata dai neuroni a specchio che si attivano in presenza di altri esseri, nei rapporti sociali. Prima verso la madre (terapia) e la cerchia familiare, poi, il sentimento di solidarietà si estende ad altre creature con cui non abbiamo legami di consanguineità, ma per esempio di religione, di pensiero, di nazionalità, fino ad arrivare ad un senso di appartenenza collettiva che ci fa percepire il genere umano come un’unica famiglia che occupa la biosfera insieme ad altre creature. E’ il modello solidaristico di internet che governa i rapporti in Rete: basti pensare all’idea che i giovani hanno sui diritti di proprietà, scambiandosi prodotti sul web gratuitamente.
Luoghi condivisi, dunque, contagio di buone pratiche. Empatia.
Cosa significa Terapia empatica? Significa terapia riferita a “luoghi” condivisi. Tecnicamente significa fare un uso importante dell’identificazione proiettiva, meccanismo attraverso il quale accadono due cose: ci si identifica e si proietta. Sulla scia della definizione data da Gabbard a questo meccanismo, direi che entrambi, paziente e terapeuta sono soggetti a identificazione e proiezione. Entrambi entrano in un ruolo che l’altro gli attribuisce o pretende ed entrambi (in misura diversa) trasfigurano. Non è una semplice collusione, non è soltanto complicità o compiacimento, di più: è la magia dei luoghi. Infondo, la psicoanalisi cosa ha inventato? Cosa ha partorito la geniale mente di Freud, se non un luogo per una cura, chiamato setting?
E allora, “eco” significa casa. Durante un colloquio con i pazienti che seguo al Sant’ Anna Hospital di Catanzaro, che hanno appena subito un intervento “a cuore aperto”, chiedo sempre: “Chi l'aspetta a casa?”.
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