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Tesi di laurea in psicologia, Università di Roma “La Sapienza” anno accademico 1994-95. Relatore Prof. Aldo Carotenuto. Laureando Roberto Ruga.



Psicologia della seduzione: maschile, femminile e creatività.


Introduzione

Eros: è felicità e infelicità, paradiso e abisso, pienezza e sconforto, estasi e disperazione, attrazione e repulsione, unione e solitudine, confronto e trasformazione, rapimento e iniziazione, bisogno e dipendenza, vulnerabilità e perdita delle proprie certezze… ovvero paura.
L’eros disorienta, svia, conduce in un altrove imprevedibile, crea movimento psichico, stabilisce nuove connessioni, ingenera l’anima, agita acque stagnanti, rimuove i blocchi con i quali ci impediamo di vivere, ci strappa via l’identità e infine, dopo essere apparso, scompare.

L’amore è una tempesta emotiva che travolge l’Io, lo obnubila, ne dissolve i confini, e in quell’istante può rivelare l’uomo a se stesso, lacera l’individuo e lo ricompone attraverso il dinamismo segreto degli opposti, spalancando così gli occhi e rendendo chiaroveggenti, uomini e bambini al tempo stesso, iniziandoci alla vita e alla morte, ci insegna a danzare con il dolore.

L’altro è un’avventura inesauribile, ci strega con la sua ineffabilità, è irraggiungibile, inclassificabile e per questo suscita e alimenta il desiderio, la ricerca: ci rende vivi, vitali, tanto che egli diviene l’origine della nostra gioia e delle nostre risposte. E’ un’apparenza allusiva che rimanda a significati nascosti, vive nel segreto, è la menzogna che mi permette di vedere la verità, poiché incarna e fa rivivere il mio pianeta interiore, resuscita i miei fantasmi e poi colma il mio senso di vuoto, avvolgendomi nel suo mantello. Egli coincide con il mio desiderio inconscio, lo rappresenta e lo evoca così che io mi arricchisco di uno psichismo a me sconosciuto, attingo nel mio stesso immaginario che ora è attivato consentendomi l’inabissamento, la traversata del mare, il cammino della libido verso le origini e dunque un’esperienza trasformativi, ovvero lo sciogliersi dell’abbraccio inconscio: il rischio è lo smarrimento, il premio è la rinascita: si apre la storia.

L’innamorato è colui che è in uno stato di squilibrio, sembra vacillare dinnanzi alla promessa di assoluto e di totalità che l’altro incarna. E’ mosso da un senso di illimitato, ma ciò che riesce ad afferrare è limitato, così è spinto alla ricerca, è attivato dalla negazione dell’amante, ricoperto di fiori e insulti. La sua energia scorre tra la radice e la chioma, collegando e fondendo gli opposti nell’attimo del naufragio: è allora che incontriamo l’ignoto e capiamo delle cose nuove. La conflittualità è lo stile di vita dell’innamorato, il disorientamento è la sua condizione esistenziale, una nave senza nocchiero in un mare in tempesta ne è il ritratto.

Il sesso conturba i sensi, li altera, sconvolge l’assetto, rompe la quiete, contamina chi è sano, si propaga dentro le forme, comunica il nucleo, lo spirito; si trasforma in dono e svanisce dopo essersi mostrato, si eclissa dopo essersi presentato, impallidisce dopo aver bruciato, infine, si oscura lasciandoci una promessa.

La creatività è la modalità infantile e ideale di entrare in relazione con il mondo, quindi con l’altro, in maniera empatica e diretta, dunque profonda. Essa trasforma le cose, la vita, il mondo, perciò seduce e lo fa in un solo modo: attraverso la via delle emozioni.
La creatività è la risposta più ampia che possiamo dare al dolore, al vuoto. Consente di “essere” nella propria storia e nel mondo, tramite uno slancio vitale e personale. E’ una dimensione interna, uno stato d’animo di ispirazione e “vibrazione”, una modalità di relazione, un atteggiamento affettivo, una scintilla divina che consente di vedere la meraviglia, raccontarla, rappresentarla.
La polarità ed il conflitto ne sono all’origine, sua dimora è l’inconscio. Si dice infatti che il sogno sia arte poetica involontaria, ma per “sognare” è necessaria una capacità regressiva dell’Io verso l’inconscio, dove è riposta la ricchezza psicologica. La libido fluisce così al punto di origine e tale discesa nel mondo sotterraneo è di per sé creativa, in quanto permette il bagno nel processo primario, il ritiro nel vuoto fertile: l’Io incontra l’assurdo, l’irrazionale, permettendo la congiunzione degli opposti che caratterizza l’uomo creativo, vitale, audace, disposto a giocarsi la vita, nel rischio dell’annientamento e della dissociazione.
Il guadagno che questo processo di discesa/morte/rinascita comporta è una migliore recettività che deriva dall’apertura all’inconscio e all’alterità. Io aperto, significa Io recettivo, capace di lasciarsi dominare dagli oggetti e di incontrare la meraviglia: una delle finestre che aprono alla creatività.
L’elaborazione e la tolleranza del conflitto portano l’uomo creativo ad una libertà interiore contagiosa quanto seducente. E’ tale scelta autentica, il simbolo della vittoria sull’esistenza.



Un atto conoscitivo
Quando si racconta una barzelletta, o si fa un discorso politico per sedurre l’auditorio, è come se si tentasse di comandare qualcosa, di attuare e governare un processo che dipende esclusivamente da noi, e, nel momento in cui riusciamo a far ciò, riusciamo nel nostro intento di burattinaio (dove i burattini sono gli altri) e sperimentiamo una grande soddisfazione: la soddisfazione del pilota che dirige la sua auto là dove vuole, e ci sentiamo realizzati come il tennista che mette a segno un colpo preciso, proprio lì dove voleva.
Nel rapporto c’è un momento in cui uno dei partner sperimenta la sua onnipotenza e la capacità di dirigere l’altro verso il piacere; si sperimenta insomma come l’artefice del godimento dell’altro. Questo fatto è ripetutamente confermato da quelle frasi che sentiamo dire in certi films erotici quando lei (la prostituta) esclama: “è questo che piace agli uomini” ... l’essere lodati per un lavoro ben fatto, il sentirsi la causa dell’estasi dell’altro, di qui la finzione della donna in questione che illude così l’illuso. Ma da dove nasce questo desiderio di comando, questo voler far dipendere la gioia dell’altro da noi stessi?
Probabilmente fin da bambini siamo sempre alle prese con la seduzione, cercando in tutti i modi di accattivarci l’altro, in questo caso i genitori, per garantirci il benessere, il nutrimento e la sopravvivenza. Tuttavia non sempre riusciamo in questo difficile compito e molte volte veniamo rifiutati dagli altri e finiamo poi per diventare dei “politici psicologici” alla ricerca sempre di consenso, di approvazione e di lode o semplicemente di quel “si” che i nostri amici di gioventù non ci hanno sempre donato. Così come quando per la prima volta, saliti su di un motorino, noi sperimentiamo la magnifica esperienza di venire trascinati da una forza sotto il nostro comando, in un momento del rapporto ci sperimentiamo come gli artefici, la causa prima del godimento dell’altro; allora ci sentiamo quantomai utili ... la nostra vita ha un senso. Tuttavia questo non basta ... ci deve essere dell’altro.
In primo luogo l’altro non è una pedina che si lascia comandare e basta, ma vuole a sua volta sedurre ... e non è un motorino. L’altro innanzitutto è qualcosa di diverso, qualcosa con cui confrontarsi, qualcosa che quindi va conosciuto. Ecco così che l’amore ci ridona la vista, ci risveglia e ci rinnova ci rende nuovi e diversi, ci permette di conoscere l’altro, ci rende partecipi del mistero di un’altra anima: l’amore è un atto conoscitivo, anzi l’unica via per giungere ad afferrare il nucleo più risposto di una personalità (Osvald Schwarz).
Si capisce così perchè un atto puramente fisico stanca ed esaurisce, mentre l’unione fisica nata dall’amore arricchisce e irrobustisce, rigenera e crea.
Ecco che impulso sessuale e amore divengono un’unica cosa, fusi verso uno scopo comune: l’altro (la sua conoscenza).
Se tutto ciò non avviene, si è costretti a rinunciare a qualcosa che probabilmente non è identica per l’uomo e per la donna: rimanendo “celibe” l’uomo rinuncia ad un pò della sua pienezza vitale, ma la donna sacrifica addirittura una parte di se stessa. Se tutto ciò non avviene si è costretti a mentire e poichè la sessualità è la sola funzione su cui non si può mentire, se siamo fortunati finiamo con l’abbandonare l’altro.

Psicologia differenziale dei sessi.
Siamo tutti daccordo sull’assunto che l’uomo e la donna si integrano a vicenda. In realtà ogni essere normale è in misura maggiore o minore, un ermafrodita psicologico, nel quale si associano elementi psicologici maschili e femminili, in altri termini uomini e donne posseggono tutte le qualità che costituiscono la personalità umana. E’ evidente allora che ci sono delle differenze tra i sessi. Si dice che gli uomini dicano cose esatte e che le donne dicano la verità ... Si dice anche che l’uomo ha l’onore e la donna la dignità, e ancora: ciò che il sesso è per la donna il lavoro è per l’uomo, e ... l’uomo non vive nella sua casa ma semplicemente vi alloggia ... la donna e la casa sono la stessa cosa ... le donne sono più sensibili al bacio ... Ma vediamo ora di ricucire queste frasi in un unico quadro generale e coerente.
Una volta sentii dire ad una donna: “Io non rifletto sui problemi, li vivo.” Questa frase getta un po' di luce sulla nostra ricerca e suggerisce qualcosa.
Probabilmente la matrice da cui trae origine il carattere femminile è la funzione di procreatrice della donna, la funzione di creare e conservare, ovvero quella di generare un figlio. Di conseguenza quei tratti che derivano da questa funzione, possono essere considerati essenziali. Mi spiego:
La donna non vive “al di fuori” delle cose, non viene a contatto con le cose solo quando queste le “vengono incontro”; ella è immediatamente, intimamente, necessariamente “una” con tutte le cose esistenti. Questa unità, questo essere “dentro” e non solo con le cose, permette alle donne di conoscere le cose, di comprendere le cose attraverso una partecipazione alla loro esistenza, non già, dunque, per mezzo della ragione o dell’intelletto, ma per mezzo dell’intuizione. Per questo esse scoprono la via giusta, in modo semplice ed umile accettando o respingendo interamente una cosa o, una persona; in altre parole non conoscono affatto ciò che si chiama diffidenza.
E’ opinione comune che le donne non abbiano prodotto mai un vero genio, in realtà il genio di tipo maschile è una rara eccezione mentre la forma femminile di esso è propria di ogni donna. Infatti l’unione con la natura e la percezione istintiva delle leggi naturali sono l’essenza stessa del genio, ovvero della donna. Ma la verità estratta dal profondo della propria esistenza di donna, non è una verità scientifica raggiunta attraverso un faticoso lavoro di ricerca, ma è una verità rivelata. La logica femminile è quindi una logica fondata sulle leggi intrinseche delle cose, quali esse sono, non quali vengono pensate; non è una logica tecnica e astratta come quella maschile che si riduce ad un gruppo di regole sul modo di disporre i pensieri, che porti necessariamente da una premessa ad una conclusione, ma una logica materiale, che varia con la natura delle cose alle quali viene applicata o, meglio, dalle quali essa sorge.
Di qui l’assunto che la moralità delle donne è essenziale o in altre parole, le leggi non scritte che sono le vere leggi delle cose, sono incastonate nel cuore di ogni donna. A queste leggi la donna aderisce rigidamente e senza compromessi. Per cui si parla di dignità della donna come elemento inalienabile e indistruttibile, e di onore come valore artificiale, creato dalla società, per l’uomo. Ora, e qui sta il punto, la differenza tra il modo maschile e femminile di concepire il sesso, si riduce sostanzialmente ad una differenza tra la moralità artificiale dell’uomo e la moralità naturale della donna. Si impone pertanto nella donna un dovere, questo dovere pone alla donna un imperativo irresistibile, poichè proviene dalle profondità della sua esistenza cioè dalla sua unità con le cose. E’ il dovere di “vivere” i problemi attraverso un processo di identificazione e di identità con essi: le donne non stanno con le cose o con (cioè a fianco) gli uomini, ma stanno nelle cose, fanno parte di un tutto che comprende in sè ogni cosa.
Per la stessa ragione le donne non possono vivere sole ma debbono appartenere a qualcuno o a qualcosa; questa unione è il loro modo di essere. Le donne dicono sempre: “io non rifletto sui problemi, li vivo”.
A tal riguardo potremmo dire che la logica delle donne, esiste fin da principio, mentre gli uomini debbono addestrarsi e diventare logici.
Ecco che possiamo dire: le donne sono creature che esistono. E gli uomini? Gli uomini sono creature che agiscono, interpretando oggettivizzando, alienando da sè le cose, ponendo valori. In quest’ottica si possono spiegare i disagi delle donne nella nostra società (maschile, ricca di valori artificiali e di uomini d’onore).

La sessualità femminile.
E veniamo così al cuore del nostro discorso sulla sessualità psicologica: la sessualità femminile.
Possiamo subito dedurre da quanto detto che mentre per l’uomo il rapporto sessuale è solo uno dei tanti rapporti possibili, per la donna, invece, la sessualità è una parte di lei stessa, del suo essere, un elemento fondamentale della sua esistenza, qualcosa di unico e compatto e non un insieme di atti separati e distinti come lo è invece per l’uomo.
E’ per questo che la donna nel rapporto ha bisogno dell’altro, della sua partecipazione della sua dedizione e non soltanto della sua presenza fisica. Ella deve “essere” con lui. L’attività sessuale vera e propria non riveste più quel ruolo centrale che ha per l’uomo, le donne apprezzano l’ouverture più dell’intera rappresentazione: nel preludio nasce l’intimità; ecco allora che la sessualità non si esaurisce nell’atto sessuale. La donna insomma non si considera un oggetto, ancorata com’è alla sua essenzialità ella pretende la reciprocità. La donna non si accontenta dei surrogati: l’esemplarità è la caratteristica innata della sessualità femminile. Per dirla con Rilke: “il mio amore dev’essere enorme”.
Solo allora il coito diventa un’esperienza sconvolgente attuando la piena realizzazione della femminilità.
Possiamo allora dire che l’essenza della sessualità femminile è la stabilità e la permanenza. Una ragazza mette tutta se stessa in ogni rapporto umano, una partecipazione parziale (solo fisica) è contraria alla sua natura. In ogni relazione la donna dona all’uomo tutta se stessa, l’uomo invece, impara a donare parti sempre maggiori di se stesso. In altre parole, l’uomo si avvia alla maturità, la donna si completa entro la sua propria maturità.
Potremmo in modo diverso riscrivere e dire che ogni volta che amiamo, muore una piccola parte di noi, per permettere al resto di crescere e di svilupparsi. In quest’ottica si capisce perchè la frigidità è solo relativa, cioè riferita soltanto ad un dato uomo, è sempre un sintomo neurotico.
Che dire degli uomini e della sessualità maschile? Vediamo.

Psicologia degli uomini
In modo migliore per definire il tipo di esistenza mascolina, consiste nel contrapporlo a quello femminile.
Mentre la donna vive in uno stato di naturale e spontanea comunione col mondo, l’uomo comunica col mondo solo per sua deliberata volontà. La donna è con le cose, l’uomo deve mettersi in contatto con le cose. La donna crea l’uomo produce. L’esistenza razionale-mascolina risulta essere il contrario dell’esistenza magico-femminile, si sviluppa attraverso l’esperienza e consiste nell’agire. Ma ahimè la vita è molto più vasta del piccolo campo della ragione e i veri problemi non si possono risolvere con l’aiuto della sola ragion pura. Per le donne tutto questo è assiomatico, conoscere ed essere sono la stessa cosa, agli uomini invece, è dato soltanto di “conoscere”, per questa ragione essi non possono, senza qualche aiuto, pervenire alla realtà, all’essere, alla “cosa in sè”. Questo aiuto (gli uomini) lo ricevono dalle donne per le quali il programma di vita è sempre pronto, presente nella loro intuizione, anche se non nella loro coscienza: la difficoltà per esse, sta nel tradurre questo programma in concretezza di pensieri e di parole. Le donne possono realizzare tale programma soltanto con l’azione concreta, perchè esse “sanno” solo in quanto vivono, impiegando tutta la loro persona.
Ecco che allora possiamo dire che l’amore nasce nel momento in cui ci innamoriamo del modo sublime con cui una donna interpreta la realtà in virtù della sua natura femminile, attuando quella diversità compensatoria che è l’essenza del rapporto tra i sessi. Probabilmente però le funzioni che il sesso ha non sono le stesse per l’uomo e per la donna, giacchè la donna, al contrario dell’uomo, trova nella funzione sessuale la piena realizzazione di se stessa. Per l’uomo l’atto sessuale è semplicemente un’attività come tante altre, uno dei molti rapporti possibili, un modo per agire, per essere operanti. La donna ha bisogno della sessualità per realizzare se stessa attraverso la concezione e la maternità; la sua attività sessuale è soltanto un mezzo in vista di questo fine. L’uomo ha bisogno della sessualità per sentirsi veramente uomo; la sua attività sessuale è, in questo senso, fine a se stessa: soltanto così l’uomo si sentirà tale e si comporterà da uomo, fiducioso nella sua virilità.
Potremmo concludere dicendo che un uomo in genere, si comporta a letto proprio come si comporta in ufficio. Tutto ciò però, è ancora troppo poco.

L’inganno dell’illusione
Abbiamo detto che ciò che ci conquista e ci cattura delle donne è in definitiva il loro modo di vedere e interpretare, di vivere la realtà alla luce della loro femminilità. Un modo del tutto nuovo, che ci spiazza e ci butta fuori strada constringendoci ad interpretare continuamente ciò che viviamo di volta in volta, senza i nostri vecchi punti di riferimento. In realtà però l’immagine che ci seduce deve in qualche modo essere già presente dentro di noi cosicchè la possiamo vivere in quel momento. Allora noi veniamo sedotti dalle nostre stesse immagini che l’altro è stato capace di evocare (Carotenuto); ciò che mi seduce è in realtà una mia immagine interiore. Questo è quindi un inganno verso noi stessi e naturalmente serve per sopravvivere e non solo, serve per conoscere l’altra faccia della nostra personalità, attraverso la trasfigurazione della persona amata che noi vediamo attraverso i nostri bisogni, attraverso l’inganno appunto. E’ l’inganno che poi apre la strada al tradimento. Infatti come scrive Neumann, quando la donna ritira la proiezione della figura esterna del compagno e riconosce questo maschile come qualcosa di interno, essa perviene alla propria autonomia del partner e questo atto di libertà, il ritiro della proiezione, viene irrimediabilmente vissuto dal partner come tradimento, (che è) inevitabile così come insopportabile è il peso delle proiezioni altrui.
Allora sentiamo che l’altro si è portato via qualcosa di nostro, sentiamo che ci ha mutilati e smembrati.
Dal ritiro delle proiezioni dunque, all’abbandono e al tradimento dell’altro, nel tentativo di riconoscere quelle parti di sè soffocate nella relazione, alla riconquista della propria identità liberata non più sotto il controllo dell’altro e non più vittime della sua idealizzazione: il tradimento diviene necessario.
Si delinea quindi un percorso unidirezionale: fusione-confusione, fusione-unione (e quindi completezza e totalità), ritiro delle proiezioni, abbandono. E’ chiaro che qui si parla di abbandono psicologico che solo a volte ha la fortuna di diventare poi reale. Da dove nasce tale abbandono?
Il processo di completezza, si sa, non giunge mai alla fine e mentre noi cresciamo nel rapporto e per mezzo di esso, può succedere che l’amato ci venga meno perchè la nostra dimensione è talmente cresciuta che egli non risponde più al nostro senso di vuoto (Carotenuto): è in questo momento che afferriamo l’altro ... e lo perdiamo. Nel momento in cui diciamo all’altro “sei mio”, smettiamo fatalmente di andare alla ricerca e alla scoperta dell’altro ... è l’abbandono.
Fortunata è allora quella coppia nella quale ognuno dei partner resta in piccola parte “non svelato” completamente all’altro, un mistero affascinante che rende più accattivante la persona amata e attraverso il percorso del quale noi attingiamo nuove visioni, nuove immagini nuova luce.
Dove sta l’inganno? Nell’illusione di credere che la nostra sensazione di totalità sia garantita dalla presenza di qualcuno ... è una illusione necessaria ...: è la gioventù.

Gelosia, Tradimento, Solitudine
Quando togliamo la persona amata dal mondo inanimato delle cose, la rendiamo partecipe di un nostro progetto che si scontra prima o poi con la sua realtà, diversa da come noi l’abbiamo costruita, immaginata, creata. Nello scontro tra questi due mondi diversi, emergono l’indegnità, gli aspetti negativi e perversi, i lati peggiori e oscuri, emerge la nostra ombra. Solo così, attraverso il vissuto del male, attraverso il peccato, la contraddizione e il dolore, si perviene alla morte mistica e si “tocca” l’altra parte di sè. E’ il momento in cui noi esclamiamo: “ Ho perso la testa!”; il rapporto con l’interiorità eterosessuale passa attraverso una sorte di morte volontaria cui noi ci concediamo nel naufragio dell’eroe che solo contro tutti, nella trasgressione appunto, cerca la libertà della conoscenza.
Per capire, per conoscere, per trasformarsi, per rinascere, bisogna vivere e per vivere è necessaria la morte volontaria che sola può garantire la metamorfosi. Così attraverso il buio, noi riusciamo a vedere la nostra luce, una luce del tutto particolare, visibile solo alle persone che in quel campo sono immerse, nel campo psicologico che si crea esclusivamente nella relazione dove è solo “Eros” che governa agendo sulle connessioni e sui collegamenti tra le diverse dimensioni psicologiche. Chi genera l’Eros?: la paura di perdere l’oggetto d’amore: è la gelosia. Accettare questa sfida, significa perciò vivere nell’incertezza, il fondamento del desiderio, a sua volta fomentato dalla gelosia.
E qui torna in mente quella famosa frase “io non posso rinunciare a te”. Che significa? Significa che ci siamo trasformati in aggressori e tiranni (Proust), e a creare le condizioni di questa possessività siamo stati noi stessi. Tuttavia dobbiamo conservare la capacità di essere gelosi perchè oltre questa porta sta la conoscenza: nella disperazione e nella paura dell’abbandono. Ma perchè si è gelosi? Perchè si è convinti che il proprio sviluppo dipenda esclusivamente dall’altro: è l’autoinganno.
Bisogna allora vivere la gelosia fino in fondo riconoscendo proprio per mezzo di essa i nostri aspetti più nascosti: la gelosia dunque come conoscenza.
Così come quando da bambini eravamo gelosi di nostra madre, ora, il “terzo” divenuto necessario, viene da noi fantasticato ed immaginato. Prima o poi però se siamo fortunati, sperimentiamo in fondo a noi stessi, la forza di accettare e vivere l’abbandono e quando si ha il coraggio di capire che abbiamo già perso tutto, si diventa l’interlocutore di sè stessi (Carotenuto): capiamo di esserci traditi da soli. A questo punto il tradimento deve essere elaborato permettendo il passaggio dal bambino all’adulto, da colui che ama ciecamente solo colui del quale si possa fidare ciecamente, a colui che riesce ad amare senza la totale fiducia. Questo passaggio segna la nostra maturità: amare quando si può avere una fiducia totale non ha senso, è troppo facile.
Il passaggio dal bambino all’adulto è quindi segnato da una caduta. La relazione come sappiamo è qualcosa che ci modifica, ci trasforma, cambia il nostro assetto psicologico, in riferimento e in sintonia con l’altro. La mano che l’altro mi dà, mi permette di mantenere il mio equilibrio, ma nel momento in cui la mano mi viene negata, la rottura mi conduce ad una nuova situazione di equilibrio, passando però attraverso una caduta (Carotenuto). E’ il momento della solitudine e della disperazione: una parte della nostra identità ci viene strappata. La fortuna di tutto ciò consiste nel venire a contatto tramite la sofferenza con qualcosa di nuovo, con qualcosa che ci si rivela inaspettatamente. Nel momento in cui siamo testimoni e succubi di una devastazione psicologica, la vita ci offre una chance che non dobbiamo lasciarci sfuggire: noi dobbiamo andare sino in fondo a questo vissuto, perchè è uno di quei momenti che ci fanno capire, ci fanno conoscere chi siamo. E’ un momento strutturale e strutturante della nostra esistenza, questa dolorosa presa di coscienza, ci rende adulti, nella scoperta che ciò che ci limita e ci tradisce è anche ciò che ci determina e ci svela ...
Se vogliamo difenderci dal rischio del fallimento, dalla delusione e dal tradimento, possiamo farlo solo attraverso il raggiungimento dell’autonomia psicologica del saggio ... è la solitudine. Indipendenza emotiva significa essere indifferenti all’atteggiamento degli altri ed invece estremamente sensibili ai propri movimenti interiori: subentra la capacità i trarre da se stessi il “nutrimento”, è la libertà di attingere all’interno la forza per il proprio benessere psichico.
Ma questa emancipazione da passioni, desideri e bisogni, questa condizione di Serenità o Indifferenza, si raggiunge solo dopo essere passati attraverso il percorso anomalo, tortuoso e sconnesso del dolore della propria dimensione individuale ... solo dopo ... forse.
Siamo giunti così al passo finale del percorso tradimento-abbandono, solitudine; il passo successivo è l’espressione artistica che inevitabilmente si nutre della solitudine e si fonda sulla creatività. La nostra furbizia deve consistere quindi nel trasformare il dolore e la solitudine in arte e creatività; ma cosa dobbiamo creare? noi stessi, la nostra unicità: è il momento del “risveglio”.

Il fascino dell’attrazione
Ciò che salva lo scrittore dalla noia e dalla povertà è la capacità di creare una tensione continua nel lettore (per definizione distratto) incuriosendolo e catturando la sua attenzione, stuzzicando il suo immaginario e non facendogli mai prevedere ogni singola parola. Stiamo parlando dell’Arte dello scrivere.
Nel rapporto tra due o più persone il discorso è analogo, percui si parla di arte della seduzione, di fascino irresistibile, di attrazione misteriosa verso una persona ... il seduttore appunto. Seduzione e creatività vanno quindi di pari passo.
In altre parole la persona che ci ama, viene da noi catturata ed imprigionata in una sorta di castello dalle mille stanze, un labirinto cangiante, ricco di sorprese e di tesori inimmaginabili che, come noi sappiamo, sono le ricchezze dello stesso amante, contenuti di cui egli non è consapevole.
La “cattura” dell’altro è da questi vissuta come opportunità di ricerca, come condizione per la conoscenza del partner o meglio, dell’altro immaginato, ovvero di sè. E’ l’essere catturati che ci dà la possibilità di ricevere il bagliore della propria Ombra, di venire toccati da un fascio luminoso. E’ però, questa, una condizione insostenibile, del resto, ogni vena creativa si esaurisce per riprendere a pulsare in un momento diverso. La parte più difficile è naturalmente l’inizio, la conquista dell’altro, un lavoro che richiede energia, forza, coraggio, rischio, finchè l’altro inizia a guardare oltre i nostri occhi alla ricerca di qualcosa. Nel momento in cui l’altro si accorge della nostra presenza e tenta di capirci qualcosa, ci investe con la sua energia, un’energia che da terapeuti dobbiamo saper trasformare in contenuti attraverso un’opera creativa, per poi restituirla al legittimo proprietario, da amanti invece, di questa energia possiamo farne quello che riteniamo.
Oggi non esiste più la distinzione tra lo stare insieme con una ragazza, esserne il fidanzato, il ragazzo, l’amico o un semplice conoscente. Nel momento in cui si dice “ciao” a qualcuno, inizia un processo di avvicinamento verso quella persona, che non ha più bisogno come una volta di definizioni come quella tra fidanzato e semplice conoscente (i due estremi se vogliamo di un processo che misura il grado di avvicinamento tra due individui).
Oggi è difficile sentirsi porre la domanda: “voi due state insieme?” ed è probabile che ad una tale domanda si risponda con una smorfia volendo dire si o no, credo ... non mi interessa saperlo, non me lo sono mai chiesto.
In quest’ottica il processo di innamoramento, come del resto è ovvio, segue un percorso continuo e progressivo che avvicina e prolunga man mano il tempo trascorso insieme dai due fortunati. La domanda giusta non è quindi stare insieme o no, ma “quanto vicini?”. Questa parola, vicinanza, ci richiama subito il concetto di attaccamento dell’amante verso la persona amata (Bowlby), e nel campo di tale teoria possiamo interpretare quel tipico tenersi per mano delle adolescenti di questa ultima generazione; le vediamo sempre in coppia, lei e la sua migliore amica, mano nella mano, a volte timidamente nascosta, quasi sempre in vista ... nessuno se ne meraviglia. Questo è un comportamento tipico delle giovani adolescenti ma non dei maschi che però manifestano una sorta di atteggiamento molto simile, a mio avviso più esplorativo che intimo ed esclusivo come quello delle ragazze: è quello di stare sempre molto vicini alla persona o amico con la quale si parla e si scherza, tendendo periodicamente le braccia per afferrare quelle dell’amico, per trattenerlo per convincerlo per incrementare la sua attenzione, per farsi ascoltare. Ma mentre il comportamento dei ragazzi è transitorio e scompare velocemente, le ragazze invece conservano la loro abitudine più a lungo ed è facile inquadrare questo particolare comportamento nell’atteggiamento tipo femminile intimistico rivelatore ed essenziale.
La capacità di penetrare istintivamente ed immediatamente nella sfera del sentimento, violando quella barriera di falsità che riveste la persona, è tipico della natura femminile che si serve dell’intuizione come di una saetta calamitata a caccia del facile bersaglio dell’Eros. Una intuizione questa, così ricca e lucida, piena e trasparente, e così travisata e svalutata dal maschio che di tanto in tanto apre lo sguardo verso l’ignoto ... il femminile. Quanto spreco! stare a due passi da un amico diverso e neanche bussare alla sua porta ... neanche tentare ... diceva Goethe: “la cosa più difficile del mondo è guardare con i propri occhi sotto il proprio naso”.
Fortunatamente capita sempre prima o poi di inciampare in uno sguardo che ci fa sbattere con la faccia a terra ... è il noto colpo di fulmine che infiamma la nostra energia e ci scaraventa in una dimensione altra, invisibile ai più, percepibile e palpabile solo nei nostri sguardi: basta concentrarsi un po' per respirarne il nutrimento. Purtroppo però in questo stato si permane per poco e del resto sarebbe forse anche stressante se dovesse durare a lungo, impegnati come siamo a comunicare e a cogliere l’altro; così cercandone un’interpretazione, gli affibbiamo una maschera dietro la quale nascondiamo anche noi stessi.
Giocare a nascondino è facile, ma prima o poi l’altro finisce per trovarci e svelarci ... come ha fatto? sappiamo già rispondere a questa domanda: con la Creatività.
Nel momento creativo l’anima parla ed ha luogo un momento di pienezza nel quale esprimiamo la nostra esperienza, diveniamo quantomai recettivi verso noi stessi e gli altri. La creatività è quindi una modalità di relazione con l’altro, risiede nel modo autentico di vivere una relazione, e ancora, creatività in questo senso, equivale ad empatia ovvero l’oggetto viene vissuto all’interno di se stessi in maniera individuale e personale; tale vissuto è ciò che chiamiamo dedizione dell’artista, una componente di fondo della creatività. E’ con la dedizione, con l’empatia che nel rapporto viviamo l’altro in noi stessi valorizzando la sua diversità. E’ questa la “meraviglia” così decantata da chi ama. Nell’aprirci all’altro però mostriamo inevitabilmente la nostra soggettività, ovvero la propria vulnerabilità, siamo quanto mai vicini al pericolo ... e alla meraviglia.
Il fascino della persona creativa risiede, in altri termini, nella capacità di entrare in relazione diretta o empatica con gli oggetti, interpretando e trasfigurando la realtà alla luce della propria interiorità, trasformando, sensibile al processo primario, la stasi in desiderio; ed il desiderio come ben sappiamo comporta il rischio del naufragio ... discesa/morte/rinascita.
Per scendere negli inferi bisogna però saper tollerare l’ambiguità, la contraddizione, bisogna scrollarsi di dosso ogni certezza, ogni pregiudizio, bisogna essere sempre inquieti di fronte a ciò che si afferma, bisogna saper interpretare in modo personale il dolore della propria dimensione individuale ... ci accorgeremo di avere una persona al nostro fianco ... solo dopo.
Se osserviamo attentamente due amanti possiamo notare che nel loro scrutarsi c’è un senso di appartenenza che l’uno crede di avere nei confronti dell’altro. Non è un fatto ristretto alla sola sfera amorosa, in realtà in tutta la nostra società la gente si possiede ed anzi chi non appartiene a nessuno, si sente emarginato. Tuttavia il ritenere di appartenere ad un altro e credere che questi ci appartenga è uno dei più grossi pericoli in cui si imbatte la coppia poco creativa. Quando diciamo all’altro “sei mio” (o sono tuo) lo invitiamo a mascherare e sminuire ogni nuovo slancio creativo, ogni manifestazione di originalità e di imprevedibilità, gli diamo il diritto di fermarsi lì dove è arrivato e gli proibiamo di continuare a scrivere il libro della sua storia autorizzandolo alla immobilità: la creatività, non stimolata perde ogni fluidità. E allora se la creatività è la chiave per aprire la porta dell’altro, impedirne la fluidità significa dover fare i conti prima o poi con un tradimento.
Le persone possedute dal complesso “calma piatta”, non sanno di esserlo e continuano a vivere la sola realtà che conoscono, dimenticando di avere un tempo desiderato; poi avviene l’imprevisto, un colpo ... uno sprofondare e quindi la metamorfosi nel e del dolore; soltanto dopo, giunti alla fine della nostra opera, possiamo scorgere la nuova forma, la costruzione nel suo significato: il senso di un tradimento.
Per ribadire ancora una volta il senso generale della Creatività, vorrei richiamare un episodio che a mio avviso svela immediatamente un contenuto tra l’altro facile da travisare: in un’intervista del 1959 ad un operatore della BBC che gli chiese: “credete in Dio?” Jung replicò: “non ho bisogno di credere in Dio. Lo conosco”. Probabilmente l’inventore dei complessi e della psicologia analitica alludeva ad un Dio interiore, a ciò che Neumann definisce il sacro della vita, l’essenza e la ricchessa della psiche umana, il dedicarsi all’indipendenza come autocreazione, il numinoso secondo Rank che si raggiunge attraverso l’esperienza diretta ... la sola che ci consente di valutare criticamente i fatti ... Jung alludeva all’istinti creativo ... un porsi in ascolto del processo primario. A questo punto, parafrasando la risposta di Jung, potremmo dire ... anche Dio ricerca il suo fine.

Intesa e Metacomunicazione, Fiducia e Tradimento
Per ognuno di noi arriva prima o poi il momento in cui ci sentiamo soli e veniamo inaspettatamente catturati da un momento di ispirazione, veniamo presi dall’istinto del gioco e non riusciamo più a contenere la nostra “Spieltrieb”. In questi momenti, la creatività preme e vuole uscire per incontrare l’altro .. che non sempre è lì, a disposizione e in armonia con noi.
Allora la furbizia e la saggezza della coppia deve consistere nel saper riuscire a conciliare tali momenti di ispirazione profonda, cogliendo in questa recettività reciproca, quel non detto della comunicazione che rappresenta la parte più significativa della comunicazione stessa. Calarsi semza preamboli in un livello affettivo di intesa, significa usare parole rivelatrici per chi ci ascolta, comunicare col silenzio. Come recitava qualcuno in teatro ... in amore bisogna riuscire a essere napoletani: è necessario saper parlare coi segni ... è la metacomunicazione.
Si dice che le ragazze di una volta, credevano tutte al principe azzurro, poi qualche tempo dopo ci fu qualcuno che iniziò a dire che per gli uomini (e viceversa per le donne) andrebbero bene circa l’80% delle donne. In effetti quando si rimane su un livello superficiale o collettivo di comunicazione, è facile capirsi ed intendersi, ma man mano che nella conversazione emerge il nostro io più autentico e personale, si iniziano a notare delle incompatibilità e gli altri non ci capiscono più. Così in generale, tutte le persone andrebbero d’accordo l’un l’altra; anzi meno accentuata è la nostra particolarità, più vicini siamo alla mediocrità (in rapporto alla media), e più facile sarà trovare qualcuno che faccia al caso nostro (quell’80%). Viceversa, più caratteristico sarà stato il vissuto dell’individuo e maggiormente viziata sarà la scelta di una compagna che dovrà, per amare (ed essere amata), stuzzicare e soddisfare particolari richieste, esigenze uniche, che rimandano a quella persona in particolare.
Ancora una volta il problema è conoscersi e saper capire l’altro, una questione, come dicevamo prima, d’intesa.
E’ chiaro ora che l’intesa nasce dall’empatia, uno stare dentro ed insieme all’oggetto, vissuto da noi in maniera personale ed autentica, come fa l’artista col mondo in posa. In tal senso il discorso che dall’intesa passa, attraverso l’empatia ed una rielaborazione personale, alla comprensione istintiva ed immediata delle leggi intrinseche che regolano gli individui, ci riconduce alla creatività, la chiave che apre l’altro.
Abbiamo appena visto come la creatività abbia molto a che fare con la recettività, la dedizione e l’accoglimento dell’alterità (sinonimo di rischio disordine e nutrimento), una sorta di colloquio interiore ed allo stesso tempo una sorta di “percezione allocentrica” che Schachtel definisce come relazione di totale permeazione verso il percetto, l’essere una cosa sola con l’oggetto in questo caso l’amante.
Ecco allora che la persona creativa è l’amante ideale, aperto, elastico, senza pregiudizi, catturato da ogni esperienza nell’accettazione della propria inferiorità e nel superamento della propria autocentricità. In questi casi la barriera tra l’Es e l’Io diviene per un attimo permeabile, processo primario e processo secondario sono messi in vicinanza e in relazione: si tratta di un vero e proprio “stream of counsciousness “durante il quale la persona creativa si lascia dominare dall’oggetto ovvero l’altro ... è l’abbandono ... è la meraviglia.
Da questo essere con e dentro l’altro, nasce e si sviluppa un processo di identificazione tramite il quale ci immedesimiamo nei contenuti che emergono attraverso il confronto con la persona amata, contenuti che del resto già ci appartengono e che sapremo far nostri nel doloroso ritiro delle proiezioni.
La persona creativa assomiglia per certi versi all’Eroe.
Chi è l’eroe? L’eroe è uno esposto alla gelosia, all’invidia e alla calunnia, perchè solo quando la coscienza creativa è eretica e tradisce allora crea. L’eroe è incontrollabile, un disadattato, un pazzo furioso, un ribelle solo contro tutti.
La vera relazione richiede il rischio e il coraggio dell’eroe ma non la sua indipendenza. Infatti quanto più basso è il livello di differenziazione (e quindi di indipendenza), tanto più forte risulta l’attaccamento emotivo irrisolto nei confronti del partner. Nel momento in cui diventiamo individui, non c’è più posto per gli altri, siamo soli ... (perchè? Perchè) sedurre è anche una questione di fiducia: nel momento in cui io mi lascio sedurre, ripongo la mia fiducia nell’altro, quella stessa fiducia primaria che il paziente ripone nell’analista gettando così le basi per un distacco finale e un tradimento: non si può continuare ad amare (un’esagerazione che serve per capirci subito) una persona che si fida ciecamente di noi, infatti, riallacciandoci al discorso sulla seduzione, l’Eros è fomentato dalla gelosia e dal divenire della creatività, (potremmo dire dalla “sorpresa”); la fiducia qui è sinonimo di stasi, di “calma piatta”, equivale a dire “tu sei mio, io sono tuo”. Ma nessuno è di nessuno nè tantomeno l’eroe che si ritrova alla fine solo. Anelare e andare perennemente alla ricerca dell’altro, è un po' il segreto del successo di una coppia, ma come sappiamo l’altro prima o poi finisce per diventare un gradino della nostra ascesa... siamo diventati dei delinquenti, e la fiducia che esisteva una volta è stata tradita.
Se i rapporti in genere richiedono allora delinquenzialità, in realtà quello che rubiamo, portandolo alla luce, è un pezzettino del nostro inconscio, uno scalino come dicevamo prima della nostra ascesa verso l’indipendenza.
L’esperienza ci conferma (dice Carotenuto) che le grandi delusioni, i grandi dolori nel corso della nostra vita derivano proprio da situazioni di idealizzazione e coseguente disillusione, con il crollo di quell’essere divinizzato che ci si svela come una mera statua di sale, un tiranno scippatore. Il crollo dell’ideale conduce il senso di fallimento dell’amante che quindi proietta le colpe sul partner cercando di tamponare una ferita che come scrive Hillman dobbiamo saper trasformare in dono, permettendo grazie ad essa un destino nuovo e inaspettato.

Idealizzazione e stupore
Idealizzazione e disillusione sembrano un binomio inseparabile che del resto è un elemento fondamentale grazie al quale la personalità individuale prende forma attraverso, naturalmente, il legame affettivo. La dimensione affettiva consente il riconoscimento dell’altro e ne svela in fretta l’unicità e l’insostituibilità: nell’accoglimento ci sentiamo individui e veniamo valorizzati dall’altro. La parola affettività ci riconduce subito al pensiero creativo legato alle emozioni ed alla nostra individualità che è la dimensione più autentica. E’ in questo momento di stupore che stabiliamo un contatto con noi stessi attraverso l’altro, scoprendo la proiezione della nostra femminilità rimossa che si manifesta come recettività. L’idealizzazione, frutto di una proiezione inconscia, va di pari passo con la nostra capacità di inventare l’altro.
In altri termini, dietro ai grandi amori ci sono le persone più creative ma anche le disillusioni più struggenti e, nel ritiro delle proiezioni, gli stupori più sconcertanti ... nel riconoscimento appunto di ciò che è nostro.
Il momento più duro in tutto questo percorso è certamente il ritiro delle proiezioni che avviene come al solito attraverso uno schock, attraverso il dolore del tradimento e chissà forse magari attraverso un dialogo ... interiore. I daimons interiori parlano solo nel dolore e nei momenti difficili.
Sintetizzando con Carotenuto, diciamo: la difficoltà è aristocratica, essa, infatti, innalza il tono del nostro esistere.
Vorrei concludere questo discorso sulla creatività, con un proverbio: pietra che rotola non raccoglie muschio. Il muschio in tal caso è la maschera, la corazza e se vogliamo il tradimento stesso che si consuma nella mancanza di impeto e nella stasi, la quale, con il rotolare imprvedibile si trasforma in estasi: rotolare significa essere sempre inquieti di fronte a ciò che si afferma, e questo tendere incessantemente verso qualcosa è mirabilmente racchiuso nella parola Progettualità, uno dei cardini nel percorso analitico. Solo una tale inquietudine è in grado di fornire l’energia di cui necessita il processo di trasformazione.
Intraprendenza e desiderio, ricerca del nuovo e trasformazione, apertura al processo primario e fede psicologica, cambiamento di prospettiva e creazione di un progetto, messa in discussione della propria vita e apertura al cambiamento, ampliamento della coscienza e ricerca, metamorfosi della sofferenza in “proazione verso l’avanti”, dualità e accoglimento, confronto col rimosso e rapporto intrapsichico, processo di individuazione e libertà individuale, responsabilità, tensione conflittuale e Creatività ... tutto ciò costituisce il modo ottimale di rompere le catene con cui gli altri ci legano, nella consapevolezza che la libertà interiore è felicemente contagiosa, diremo a questo punto ... seducente.

Personalità mana
Una conferma che la libertà interiore è seducente ci viene da quella felice frase che una donna in un film dice al suo uomo: ”mi piaci perchè sai chi sei e cosa vuoi”. Del resto tutti conosciamo il fascino del sapere, della verità che si personifica nella figura del saggio, Jung direbbe nella personalità mana, un essere che ha qualità occulte e sovrannaturali, armato di forze e cognizioni magiche, mago medico e santo nonchè Eroe, signore degli uomini e degli spiriti, amico di Dio (ricordate la risposta di Jung? ... lo conosco).
In realtà saggezza ed eroicità non sempre coincidono in quanto la prima è alleata della società, l’altra la tradisce, la scardina e va oltre seguendo l’inevitabile destino del superuomo che alla fine si ritrova solo ... eretico ... Il Saggio è fermo, immobile nella sua capanna o in ritiro sui monti dove riflette anzi non riflette perchè già sa in quanto saggio e poi è vecchio, con la barba bianca. L’Eroe non è fermo, è in viaggio, attraversa gli oceani, sfida le avversità, va in un luogo proibito a combattere il drago per svelarne il mistero, è giovane e forte, tenace come il guerriero.
Tuttavia gli altri hanno un tale bisogno di trovare da qualche parte un eroe in carne ed ossa o un sublime saggio, una guida e un padre, un’indubbia autorità, che sono dispostissimi a costruire templi per seguire questa elementare legge psicologica della dipendenza la quale getta sull’uomo l’archetipo di una figura collettiva, una specie di maschera dietro la quale l’umano non si può sviluppare e progressivamente intristisce. Bisogna perciò stare all’erta contro il pericolo di cadere in preda alla dominante della personalità mana, ecco che alla fine l’eroe o meglio l’individuo autocosciente e autorealizzato non può vivere con nessuno e dopo il distacco dalla Grande Madre avverrà inevitabilmente il distacco dall’amante o da altri sostituti.
Questa rinascita a nuova vita, è rappresentata nei miti da uno stato di immortalità di colui che è Assoluto, l’eroe Dio, il Cristo.
Dopo tale parentesi sulla personalità mana è necessario ricalarsi negli umili panni di uomini particolari alla ricerca di qualcosa di particolare, lasciando chi, dopo una vita intera crede (a ragione) di poter dialogare con Dio.

La forza imbrigliata
Il problema di fondo nella relazione è quello di riuscire a comunicare subito, in maniera diretta empatica ed individuale con l’altro che altrimenti si annoia e prima o poi ci sfugge. E’, se vogliamo, una questione di attenzione, nel senso di saper far caso a ciò che accade, un accorgersi di cose che generalmente ci sfuggono, cercando (in un linguaggio cinematografico) di aumentare i fotogrammi al secondo per rendere visibili gli stimoli subliminari che continuamente ignoriamo. Conoscere significa accorgersi dell’altro, guardare nella sia direzione con la mente lucida e concentrata senza lasciarsi rapire e risucchiarsi nel buco nero della propria coscienza, un vortice che tutti possediamo e che è chiamato inconscio.
Per essere desti e attenti, concentrati e recettivi è perciò necessario fare un po' di luce nella vostra stanza buia ed indirizzare le energie caotiche inconsce verso l’altro in termini di empatia e recettività. Soltanto dopo esserci impadroniti di questa forza imbrigliata e misconosciuta, potremo farne dono all’altro semplicemente con uno sguardo. Ecco perchè la consapevolezza di sè finisce per essere una libertà interiore estremamente seducente che l’altro percepisce ora come impeto vitale, ora come forza travolgente, ora come creatività, una via di entrata nel mondo della significazione. La nostra donna dice sempre al suo uomo (e viceversa): “mi piaci perchè sai chi sei e che cosa vuoi”. In tal senso la cosa più brutta per noi è la cecità di quelle persone che ci stanno vicine e non si accorgono di noi, una cecità che si cura solo mediane il rapporto che, come si dice, apre lo sguardo verso noi stessi.
Perchè non ci accorgiamo di ciò che sta sotto i nostro occhi? Perchè viviamo nella contraddizione e quando siamo contrariati dalle vicende della vita diveniamo confusi e la nostra vista si annebbia, la nostra forza ci abbandona e non ci possiamo più muovere: l’energia è in mano all’inconscio che in preda anche lui di un paradosso si pone sempre una risposta incongruente. Infatti, la distrazione è la prima cosa che notiamo in una coppia poco creativa, la ricerca dell’altro si è fermata forse perchè stiamo cercando noi stessi.
A questo punto ci vengono in aiuto i sogni, quando, in un momento di immobilità psichica, si presenta a noi una figura emotiva che ci libera e ci svela. Tale figura misteriosa, capiremo alla fine, se siamo baciati dalla fortuna, che non è altro che noi stessi.
Possiamo dire che siamo seducenti nel momento in cui ci presentiamo all’altro nelle sembianze della sua figura misteriosa ed in quanto tale cercheremo di non svelare la nostra identità, un’identità che proprio non ci appartiene e che abbiamo rubato all’altro.
La nostra delinquenzialità consiste appunto nell’impadronirci e nell’incarnare una figura fantasmatica che l’altro non riesce ancora e vedere in sè, ma che prima o poi farà sua nel doloroso ritiro delle proiezioni.

Dall’Autocoscienza al rapporto: un nodo da sciogliere
Il problema è come dicevamo prima che l’Es trattiene l’energia.
Quando si è impegnati alla ricerca di se stessi non c’è posto per gli altri e nel rapporto si finge, si è assenti, come tirati via da una’ltra parte, l’energia è come dirottata altrove, al servizio dell’Es.
Una tale persona appare subito spenta, come distratta, con lo sguardo vago, non ti guarda mai negli occhi quando le parli, pensa sempre al suo problema esenziale che conosce fin troppo bene ma che gli sfugge. Il rapporto autentico richiede allora l’autocoscienza, o consapevolezza dell’Io che si è ormai impadronito il più possibile delle forze dell’Es, dimodoche l’altro nell’atto di guardare oltre i nostri occhi, vede qualcosa di definito. Ritroviamo la nostra frase: “ti amo perchè sai chi sei e cosa vuoi”.
Il saper guardare chiaramente cosa succede dentro di noi da sempre è qualcosa che seduce così come è affascinante il saggio che sa appunto rispondere alle nostre domande.
Ma l’altro, nel momento in cui risponde ad una mia richiesta finisce per essere confuso e scambiato egli stesso per la risposta alla domanda e nasce quindi un equivoco che sfocerà in tradimento. Non c’è niente di più classico che un tradimento dove uno dei due continua a proporre risposte che l’altro infatuato com’è accetta alla cieca, finchè non si pone la domanda: ma l’altro è veramente la mia risposta? o è un’equivoco?
Probabilmente l’altro è la risposta ma è una pietanza che bisogna saper gustare con sapienza e per assaporarne le qualità è necessario avere il desiderio di mangiare, dopo cioè aver fatto un po' di luce sul nostro mistero e non senza aver recuperato quindi un po' della forza dell’Es. Una volta illuminato il pianeta Es, si avrà quel desiderio, quella forza ciò di cui necessita il rapporto o in ultima analisi un atto creativo e quindi personale. Qualsiasi impegno richiede insomma concentrazione e dedizione, tutta la nostra passione per quella cosa, per l’altro (in questo caso) al quale bisogna donare tutto ciò che si possiede e che abbiamo fatto nostro. La conoscenza come autocoscienza è il dono che offriamo all’altro e che seduce.
Così a furia di cercare e scrutare sul pianeta Es troviamo prima o poi una risposta, quella stessa risposta che ci rende seducenti. Diremo allora che l’eros è stato liberato e adesso può inventare l’altro ... c’è però qualcosa che va puntualizzato.
Se non c’è libertà interiore non ci può essere amore, ma è vero anche il contrario: chi è completamente libero non ha bisogno dell’amore, perciò il legame tra due persone si stabilisce in un compromesso, tra libertà e dipendenza, tra onnipotenza e schiavitù. Si ama nella libertà grazie alla dipendenza. Quando la dipendenza grava su nuclei nevrotici, allora si vive l’amore narcisistico e non si conosce mai veramente l’altro. Man mano che i nodi si sciolgono, ci imbattiamo in quelle persone che vivono il giusto compromesso, quando i nodi sono completamente sciolti - eccezioni uniche e bibliche - si vive nell’unica dimensione possibile: la solitudine o la saggezza, o l’indipendenza.
Amore grande significa allora un giusto equilibro, significa oscillare sapientemente tra una dipendenza irrisolta, ovvero un nodo non sciolto ed una libertà della coscienza e della conoscenza che si raggiunge appunto nel rapporto. Ecco allora che finchè ci sono nodi da sciogliere, l’amore diventa fonte di rivelazioni, il mezzo per aprire gli occhi, una scoperta continua di noi stessi e dell’altro che possiamo immaginare come una continuazione di noi stessi. Ma nel momento in cui non si intravedono più nodi da sciogliere (anche se ci sono) il rapporto diviene stasi o nei casi migliori significa che i due amanti sono talmente cresciuti da non aver più bisogno l’uno dell’altro, hanno raggiunto la saggezza ovvero l’indipendenza. Indipendenza da un lato, dipendenza dall’altro, amore nel centro ...ma come diceva qualcuno: non ci si può immergere due volte nella stessa acqua poichè è tutto un divenire, allora anche l’amore si trasforma, speriamo in libertà.
Purtroppo il più delle volte non si trasforma in libertà ma in noia: è come se quei famosi nodi non fossero ad un certo punto più visibili dai due amanti ... ex-amanti.

Dall’esuberanza alla creatività: il fascino del mistero nel rapporto.
Qual’è l’antidoto della noia e dell’indifferenza? L’esuberanza ed il mistero. Il bello deve ancora venire ... è questo che dice l’amante con la sua esuberanza.
Come si vede, non c’è bisogno di parlare di fiducia in una coppia creativa. Nel momento in cui sentiamo questa parola, fiducia, si avvicina un tradimento, mentre se le cose vanno bene, i due amanti non pronunciano mai questa parola. A ben vedere la creatività in sè tradisce e la fiducia in tal senso equivale a prevedibilità, aspettativa (infatti si dice: mi aspetto la tua fiducia il tuo consenso). La fiducia è tradita dalla creatività che è sempre qualcosa di inaspettato e nuovo così come la personalità creativa è inafferrabile, fugge sempre, schizza via ogni volta che tentiamo di mettere le mani sul suo pensiero, è uno che non trova mai pace, è sempre infettato dal “virus benefico” ma lo domina e ne trae nutrimento per fronteggiare il mistero. Questo mistero è ciò che veramente seduce l’altro, l’ascoltatore recettivo.
Esiste però oltre questa forma privata di creatività d’élite, un’altra forma, più oggettiva, per tutti, che emerge chiaramente, ma non si chiama più creatività (perchè questa è propria soprattutto della prima forma) si potrebbe chiamare esuberanza, impeto, estro, vivacità, forza, cose insomma che tutti conosciamo, forme comprensibili al collettivo. Una tale forza e una tale energia la troviamo anche in quei sentimenti opposti ai primi ma che nell’ottica della filosofia taoista li completano in un punto ideale - e idealistico - dove gli opposti appunto coincidono.
Così forza, energia esuberanza, impeto e vitalità, non sono molto dissimili da rabbia, ira, furore, aggressività, odio. Infatti chi odia non si arrende mai, per lui il nemico è sempre in agguato, pronto a divorare la preda. Chi urla di disperazione e di rabbia è vivo, chi sente lo strazio del dolore si prepara al combattimento urlando una vendetta che come noi sappiamo, va saggiamente trasformata, incanalata in una direzione creatrice piuttosto che distruttrice; sta tutta qui la difficoltà: convincere il paziente che ciò che odia non è qualcuno, ma è la ripetitività, la stasi, l’incapacità di muoversi e di vedere con occhi nuovi, con i propri occhi.
In fisica la forza è la capacità di compiere lavoro ed una persona adirata può vincere ogni battaglia; l’opera dell’analista consiste nel far intravedere al “furioso” l’obiettivo da raggiungere, il castello da espugnare, il presidio da conquistare, ovvero il fiore da cogliere ... l’altro.
Indirizzare un tale tumulto nella direzione del rapporto significa però soffocare l’altro che non può contenere un’onda così possente di energia la quale deve allora essere trasformata in creatività, la sola che non stanca mai ed è sempre ben accetta (nel rapporto s’intende). In realtà a ben vedere l’artista è in sè una furia scatenata, l’adirato per eccellenza, solo che anzichè prendersela con qualcuno, mette le mani su di un pezzo di marmo o rabbiosamente schizza la tela di astratto. Esemplare in tal senso è Kandinscki che nell’improvvisazione del 12,1910 esprime tutto il moto della sua rabbia, la tensione del percorso stesso della vita, sapientemente (e terapeuticamente) scaricata sulla tela pervasa di una tale energia vitale. E’ solo l’energia che crea la vita.
Ecco allora che in quest’ottica anche l’odio ha una sua valenza positiva da accogliere e sviluppare correggendo lievemente l’obiettivo distruttore in progetto di vita e creazione. Per vedere le cose in modo nuovo è necessario cancellare il vecchio sistema ed apportare dei correttivi, ma attenzione, chi corregge non siamo noi, è sempre il paziente, il soggetto, che in ultima analisi decide dove posare il suo sguardo, su quale marmo mettere le proprie mani (concretizzando un pensiero creativo).
Quando si parla di creatività, non si può fare a meno di chiamare in causa l’aggettivo vago. Vago presso di noi vuol dire ancora bello, di una bellezza conturbante, infatti la creatività stessa in una prospettiva desultoria è vaga cioè salta di argomento senza “argomentare” o specificare mai fino in fondo di che si tratta, ovvero si intuisce ma non si spiega. Dall’indefinito e dall’indeterminato nasce appunto quel fascinoso, quell’inafferrabile e misterico che si apre di tanto in tanto ed improvvisamente all’intuizione di chi sa porgere orecchio alla musica creativa. E’ un’onda di sfumature poco palesi che viene convogliata e interpretata poi come seduttrice ma che ai più rimane nascosta, all’amante evidente. Stiamo parlando dell’esclusività del rapporto d’amore, dove come in un discorso in codice chi capisce è solo chi ha in mano la chiave di lettura, quella sorta di filtro, (anzi tutt’altro che filtro!) che permette di scendere nel particolare di una visione, per vedere questo particolare nel senso generale di una sinfonia a più componenti che spiega le parti. E’ dal particolare al generale che si “salta” con estrema facilità gettando la propria rete su contenuti vasti e per questo ambigui.
Ed eccoci al punto: la sessualità è misteriosa e come sappiamo il senso del mistero è quello che poi rende accattivante il rapporto e giovane la coppia. Un uomo non potrà mai capire com’è una donna e viceversa una donna non potrà mai chiarire a sè il mistero dell’uomo; è questa ricerca continua l’essenza dell’amore, un confronto incessante ed irrisolto. La tematica dell’irrisolto è una questione alla quale siamo sin da piccoli abituati ma adesso dobbiamo essere furbi e saper tollerare una tale ambiguità, l’ansietà dell’irrisolto la quale si traduce in irrefrenatezza verso una soluzione, sempre provvisoria. L’ansia e la smania scaturite da un problema irrisolto che ci chiede anzi grida una soluzione, devono da noi essere controllate o meglio trasformate in forza promotrice, in desiderio e dedizione verso l’altro, una passione per il misterico che viene dall’altro percepita come amore, ovvero l’esigenza di risolvere l’altro e di comprenderlo.
Con la parola “attenzione” verso l’amante, ci si riferisce appunto a questo “accorgersi” di una diversità e, ci si rende conto delle cose solo quando le si desidera cercare. Allo stesso modo l’altro si aprirà alla nostra vista solo se noi aguzziamo lo sguardo. Saper ascoltare non significa solo cercare con la buona volontà di accorgersi di qualcosa, significa volersi abbandonare all’intuito e al sentimento. E’ la capacità di “delirare col delirante” - come sottolinea abilmente Ancona - che rende grande un analista il quale però non deve contrarre la malattia. In questo caso, nel rapporto, dobbiamo invece contrarre fino in fondo la malattia. Abbandonarsi al delirio insieme e contrarre l’amore, significa aver fatto un passo fondamentale verso la maturità psicologica. La parola delirio ha qualcosa di affascinante. E’ infatti nel delirio che si dicono verità sconcertanti, che si rivelano cose inaudite e vere, ma delirare significa anche soffrire, una sofferenza che fluisce fuori dal corpo attraverso la verità di cui si delira. Il delirare in sè allora salva. Infatti all’estremo di questo atto, si prende coscienza di qualcosa di impenetrabile di sacro e di magico, ci si rende consapevoli e si tocca qualcosa ... che cosa? anzi chi? Naturalmente la risposta è noi stessi ovvero l’altro oppure, evidenziando la proiezione, l’altro ovvero noi stessi.
Si tratta qui di essere egoisti o altruisti, ma poco importa se la coscienza si polarizza più su me o più sull’altro, il punto è l’abbandono da cui scaturisce una circolarità di coscienza da noi all’altro e viceversa. Avvicinandoci all’ottica di Jung, sono in quattro qui a barattare: Animus e Anima dei corrispettivi amanti e quando lo scambio avviene eco che cresciamo. La crescita è allora garantita da un confronto che la diversità, e la parte più difficile è prepararsi a questo esame; ancor più difficile è iniziare, ma qui ci viene in aiuto la creatività la quale apre.

Un’alleanza: il terzo occhio
L’uomo da sempre è alla ricerca di qualcosa che continuamente gli sfugge, ma egli cerca, il cercare è di per sè una soddisfazione, un’evasione, una liberazione. Lo sanno molto bene i “viaggiatori” che divorano immagini e si nutrono di una esteriorità a loro sconosciuta perchè anonimo è il loro io più autentico.
Lo sanno molto bene gli uomini di scienza smaniosi di intravedere nei loro sogni appannati ed opachi, un lume rischiaratore che possa loro indicare la via sicura da battere. Lo sa chi intraprende gli studi in psicologia che si pone da sempre la solita domanda ed osserva attento, in veste di palazzi, chiese e monumenti, gli sguardi degli interlocutori, curioso come il turista, alla ricerca attraverso un confronto di un mondo muovo, un mondo vero.
Chi cerca trova e trova ciò che cerca perchè da sempre l’uomo vede ciò che vuole vedere e si accorge solo di ciò che la sua natura gli mostra, il suo inconscio gli passa. E’ appunto questo cercare che può avvicinare due persone stringendole in un patto di alleanza, il matrimonio appunto, che permette di scrutare il mondo con tre occhi e di penetrare più a fondo il senso delle cose.
Nel tentativo di capire meglio come vanno le cose, si stabilisce allora un’alleanza tra i due amanti, avviene una somma vettoriale di forze, un’unione di risorse contro le difficoltà della vita. In questo rapporto ognuno trae nutrimento dall’altro e lo interroga, gli chiede opinioni, esige risposte, è curioso di conoscere come il turista, un mondo nuovo , un luogo inesplorato, un popolo diverso, una persona che sappia qualcosa in più.
La risposta naturalmente, e qui sta il bello, non è data in termini di parole o pensieri logici, la risposta - come qualsiasi risposta che si rispetti - è una rivelazione improvvisa che si percepisce come intuizione immediata, il veicolo prediletto dell’eros. Nessuno mai ti dirà ciò che pensa della vita, non lo saprebbe dire neanche lui; invece nella relazione avviene una rivelazione connaturale alla relazione stessa, una intuizione che scaturisce dal rapporto stesso con l’altro, per cui ci si ritrova in comunione, una partecipazione fisica e di pensieri. E’ forse in questo contatto che noi troviamo le risposte più autentiche, risposte che per rendersi tali hanno bisogno di essere sollecitate dall’altro, e che in definitiva sono nostre anche se in quel momento abbiamo la sensazione che ci vengano donate dall’altro.
Tuttavia anche se udiamo solo ciò che noi stessi possiamo sentire, l’altro può in taluni casi aprire il nostro ascolto a qualcosa di nuovo, e poco importa se sia vero o sia solo illusione - una proiezione - ciò che conta è il risultato, ovvero il sentire ... l’altro. E’ il momento in cui siamo profondamente convinti che quella persona ci possa far nascere un “terzo occhio”; alla fine se è un’analista, lo ringraziamo per averci fatto rendere conto di qualcosa che prima non consideravamo come nostro, se è l’amante lo abbandoniamo come fa con la sua guida, chi, prima cieco, acquista la vista.
L’abbandono è dunque la parte finale di una parabola che necessariamente si conclude in modo solo apparentemente contraddittorio. Basti pensare che anche il Cristo sulla croce viene abbandonato dal Padre, il più alto dei tradimenti che l’uomo possa ricevere dalla Madre Natura, concedente prima, ingrata poi, infine traditrice e mortale. Si dice che la morte ti tradisce ovvero ti colpisce alle spalle inaspettatamente così come improvviso è l’atto di trafiggere con la spada il nostro caro amante che vedrà confermata la sua più terribile paura espressa da quella famosa frase: “temo che un giorno ti stancherai di me .... amore mio”.
Ecco allora che la ricerca dell’altro si traduce prima ancora di essere desiderio di completezza e unione, in curiosità (ricordate la curiosità del turista?), in avidità e bramosia, anelito, desiderio e attrazione ovvero presupposti tutti del sapere, della saggezza e dell’eroicità, l’unica che può fare ameno della fiducia avendo l’Eroe fiducia solo in se stesso (fiducia è intesa qui come dipendenza dagli altri). Come il bambino che ha bisogno di aver fiducia nel ritorno della propria madre, altrimenti morirebbe, l’amante cerca un’alleanza ma quando col tempo cresce in superpotenza, scioglie ogni compromesso e si ritrova un paese libero e indipendente ... solo, altrimenti è come il bambino, finchè è dipendente è ricattabile. In verità per crescere la fiducia è necessaria e chi ci tradisce ci salva in quanto trafiggendoci permette la nostra rinascita. E’ questo il messaggio di quel gesto cruciale simbolicamente rappresentato dal bacio di Giuda, il re dei traditori che condanna il Cristo ad una morte fisica, ma ad una rinascita spirituale. Nel piccolo del nostro rapporto il tradimento ci scaraventa in una dimensione nuova anzi unica, che attende solo di essere elaborata vissuta e interpretata in maniera personale promuovendo la nascita di un’altra componente della nostra personalità e ampliando la nostra coscienza.

Le origini del femminile
Nel rapporto vi è una incompatibilità di fondo tra uomo e donna, una discrepanza che deriva dalla natura stessa, diversa appunto dei due.
Un uomo e una donna, non potranno mai vedere e interpretare lo stesso fenomeno allo stesso modo. Da questa diversità nasce un’incomprensione che connaturale alla stessa natura del rapporto femminile e maschile. E’ l’incompatibilità (relativa s’intende) la molla della nostra ricerca, il senso stesso del confronto che deriva dall’illusione - o se si preferisce dalla speranza - di risolvere questa diversità essenziale. Che sia un’illusione lo dimostrano i risultati, la speranza quella c’è sempre.
Il confronto con l’alterità comporta come si sa, il rischio del naufragio e non a caso in gergo teatrale l’altro è l’inferno, tuttavia il rischio apre gli orizzonti e svela. Ma vediamo ora di puntualizzare meglio la modalità del rapporto maschile in rapporto a quella femminile. L’uomo con l’impegno e l’istruzione con la logica e l’addestramento con la ragione e con l’intenzione impara a capire il 90% delle cose. La donna per istinto ed attitudine con l’intuizione entra in diretto contatto con certe cose, il resto non lo capirà mai. Perciò mentre l’uomo saprà tutto di tutto, la donna sa già quel poco, ma lo sa intimamente e totalmente. E’ questa piccola percentuale di cose, forse la più ricca che attira la curiosità dell’uomo e apre l’ascolto al nuovo. Per la donna è quasi impossibile aprirsi a qualcosa di altro, alieno di sè, ella ha sempre lo stesso genere di intuizioni e non si discosta mai da tale modello abbastanza rigido ma rivelatore nel suo piccolo.
Potremmo dire che l’uomo è paragonabile ad un’aereo dal carburante illimitato che può quindi sorvolare l’intero universo della scienza e dello scibile, creando un’orizzonte sempre diverso e prima o poi raggiungibile; la donna è un piccolo gioiello di macchina (una topolino magari) che permette la conoscenza delle piccole e minute strade della vita, i vichi del nostro inconscio, le zone più recondite ed inesplorate, perdendo però di vista l’intera pianta della città, l’intero sistema che sfugge incontrollabilmente al fiuto femminile unidirezionale ma penetrante.
Probabilmente il fascino della morte è qualcosa di sconosciuto al mondo femminino ancorato alla permanenza e alla stabilità, abile scrutatore di un giocattolo invariante, di un territorio iperispezionato, sovraconosciuto ma pur sempre limitato e ripetitivo, seppure al maschio indubbiamente estraneo.
La rivelazione è qualcosa di pericoloso, ad essa è associato (non solo nei miti) il fascino della morte, la seduzione del mistero, il rischio del naufragio, la maniacalità del ribelle e quindi la sovversione di un’ordine ripetitivo e statico ... in una sola parola eresia, un affacciarsi al mondo dell’infero, alla spietata ricerca di qualcosa che invece alla donna le si svela per istinto, per connaturale attitudine alla verità del sentimento. Un verità piccola questa, ma non per intensità e nitidezza.
Vista così, la donna rassomiglia ad un medico specializzato, che da sempre svolge il suo particolarissimo lavoro routiniano che nessuno meglio di lui saprebbe fare; l’uomo, invece, sarebbe un medico generico che dopo una vita di esperienze e casi, ognuno diverso, ha saputo imparare a destreggiarsi nell’irregolare esteso mondo degli imprevisti e delle novità, perdendo di vista alcuni particolari minuti ma illuminanti. E ancora possiamo mettere a confronto le due modalità di comunicazione, quella maschile e quella femminile, paragonandole la prima alla comunicazione ormonale che funziona come un sistema radiotrasmittente: vengono diffusi per il corpo molti messaggi endocrini captati dalle cellule provviste di recettori specifici; la seconda alla comunicazione neurale che funziona come un sistema telefonico: i messaggi viaggiano per canali fissi verso destinazioni precise e sono inoltre “digitalizzati” come impulsi tutto o niente, ciò ricordandoci l’intuizione femminile, mentre i messaggi ormonali sono di intensità graduata, vale a dire analogici e ciò ci ricorda l’impegno e la costanza della ricerca maschile e la sua logica.
Da questo stato di cose deriva il bisogno reciproco che ci conduce poi attraverso il confronto con l’alterità alla coscienza. Un confronto questo che è più illuminante per il maschio bisognoso più della donna di vedere nell’altro l’oggetto ideale interno, un oggetto che non si è mai sviluppato e che si realizzerà nella proiezione.
Così il bisogno di completezza ha molto a che fare con il bisogno di indipendenza (entro la quale si ha l’illusione della completezza) da cui deriva il desiderio dell’oggetto, condizione necessaria alla sua allucinazione (Klein).
L’allucinazione deriva quindi dalla mancanza e da un’assenza compensata dalla visione di quel fantasma allucinatorio che si nutre del bisogno profondo di entrare in contatto con l’immagine interiore, con il “daimon”.
La proiezione che nasce dunque dalla sofferenza, è un catalizzatore verso la presa di coscienza dei nostri poteri sovrumani visti nell’altro, ma questa presa di coscienza si realizza solo alla fine di un lungo percorso durante il quale proiettiamo sul partner una dimensione immaginaria a noi invisibile e che costituisce l’essenza del legame stesso, una condizione illusoria esistenziale e necessaria. Diremo allora che i due amanti si cercano o meglio cercano qualcuno che sappia accogliere le loro proiezioni nella speranza che tale nutrimento riesca a farci aprire la porta della gabbia entro la quale è rinchiusa una colomba.
Per sviluppare meglio il discorso sulla psicologia differenziale vorrei rifarmi ad una scena tipica quanto banale ma per noi significativa: Quando ad un certo punto del film (o della telenovela), la madre comunica ai figli riuniti che il marito le ha chiesto il divorzio, la reazione tipica dei maschi è la nota esclamazione ... cosa?!, le figlie, invece, abbracciano subito la madre. Possiamo ora prendere questa scena come modello da cui trarre qualche riflessione sulla natura diversa del maschile del femminile e sul modo differente di interpretare e vivere i fatti, in accordo con una modalità intera di relazionarsi con le cose e con le persone; tenterò poi di spiegarmi cosa questo “stile personale” di vita possa significare nel rapporto vero e proprio.
E’ diventato ormai facile pensare al femminile come a qualcosa di fragile, debole, delicato, sensibile, un qualcosa da proteggere di fronte alla durezza della vita, così dobbiamo chiederci da dove nasca e come venga fuori una simile pregiudiziale concezione del femminile e cosa veramente valido ci sia in essa.
In realtà quando parliamo di delicatezza e sensibilità, di capacità di entrare in rapporto con l’interiorità, identificazione ed empatia, ci riferiamo a doti femminili che una madre normale mette giornalmente in pratica con la figlia, qualcosa di identico a sè. E’ proprio questa identicità o similitudine tra madre e figlia, entrambe femmine, a permettere alla piccola di sviluppare quelle dimensioni tipiche che rimandano ad un rapporto intimo tra pari, tra eguali. La bambina crescendo, al contrario del maschietto, non sente la necessità di differenziarsi, di staccarsi dalla madre e permane in uno stato fusionale che le permette di raggiungere la propria femminilità nell’identificazione con la madre stessa; il maschietto invece avverte l’alterità, la diversità ed è perciò portato più al confronto che all’identificazione, più alla separazione che alla fusione-confusione. Ciò per il maschio significa perdere l’opportunità di sviluppare appieno potenzialità e capacità che nascono dal rapporto simbiotico e paritetico che invece il femminile può coltivare e mantenere a lungo fiorendo e trovando se stesso all’interno del cerchio uroborico materno. Il maschio viene per così dire scacciato precocemennte dal paradiso uroborico, escluso perchè diverso e quindi percepito come intruso, la femmina invece ha la possibilità di crescere all’interno di questo cerchio magico nell’eguaglianza e nell’unione-fusione con la madre sviluppando doti tipiche del femminile quali l’eccellere nei rapporti che si basano sull’identificazione e sulla comunione con l’essenza delle cose (moralità essenziale delle donne).
La scacciata dal paradiso uroborico tuttavia comporta per il maschio non solo lo svantaggio di lasciare a metà un processo di sviluppo appena iniziato, ma il vantaggio, lo stimolo e la possibilità della differenziazione e dell’individuazione grazie appunto alla contrapposizione e al confronto con l’alterità. Per la donna ciò non è subito possibile, lo sarà più tardi grazie a “nuovi” rapporti percepiti dapprima come intrusioni indesiderate, poi come rivelazioni di un mondo più ampio.
Possiamo dire allora che il maschio è abituato sin dall’inizio alla lotta, alla contrapposizione, alla violenza incestuosa nata dall’esigenza di imporre il proprio sè: uno strappare via dalla matrice originaria indifferenziata, pezzettini di sè ricomponendoli.
Con l’incesto l’uomo si impadronisce di se stesso e ciò avviene inevitabilmente e necessariamente. La donna invece, abbiamo detto, continua a crescere nella propria gabbia. A questo punto per entrambi l’incesto diviene necessario e si configura come unica via verso la rinascita e l’individuazione. E’ l’incesto che apre la via allo sviluppo e alla differenziazione della matrice inconscia - che Neumann chiama stadio uroborico -, verso la coscienza; la condizione uroborica simboleggia dal serpente che si morde la coda o dal cerchio, è il simbolo della totalità indifferenziata ed inconscia, l’uno in se stesso. L’incesto uroborico è una forma di unione con la madre, una dissoluzione del figlio nella madre ma, ed eccoci al punto, l’Eroe che scende negli inferi, che si cala negli abissi, non si lascia dominare dallo strapotere della Grande Madre anzi è pronto a rinascere una seconda volta. Nel compiere un tale atto eroico uscendo dal cerchio uroborico l’Io abbandona la beata situazione infantile in cui dimora all’interno di un essere più grande e fa sorgere una sua propria coscienza, nasce l’individuo autodiretto, che si libera dal potere dell’inconscio che lo sommergeva. L’eroe nasce dunque attraverso l’incesto penetrando attivamente nell’inconscio divoratore e subendo una trasformazione che lo fa accedere alla sua vera natura. Dall’immersione alla lotta, alla coscienza, alla rinascita, all’individuazione.
Parallelamente l’uccisione del Padre corrisponde (sempre per Neumann) alla sconfitta dell’antico ordine ed è necessaria allo sviluppo della personalità e all’emergere dei nuovi valori. Più che un atto di forza o un tradimento questo è un atto creativo che richiede il rischio della morte ed il desiderio della rinascita.

La paura di sapere
Come la nota paura di vincere, la paura di sapere ce la portiamo dietro per tutta la vita. Essa nasce con il Super Io da un’educazione mirata ad obiettivi collettivi ed utilitari, non personali e quindi falsi. E’ l’arte del mentire a se stessi nella supposizione che meno si conosce, meno si rischia, più si sta tranquilli e beati, come adagiati nei propri schemi ripetitivi e stabili, patrimonio di tutti e con i quali ci viene fatta violenza ogni volta che nasciamo.
In altre parole la “tranquillità collettiva” ovvero il vivere sociale esige delle cosiddette garanzie percui colui che tradisce l’ordine, il ribelle, il trasgressore, l’ibrido per eccellenza ovverosia il genio, viene subito punito o corretto, arginando il suo sconvolgente pensiero creatore del nuovo che naturalmente incute paura nonchè terrore.
Il panico della diversità ci prende un po' a tutti e basta fare un piccolo esempio per ricordarlo; così quando ci smarriamo in una città misconosciuta, entra subito in moto un meccanismo di allarme sapientemente dirottato alla ricerca della retta via del ritorno.
Vogliamo tutti ritornare a casa tra le nostre consuete mura e l’armadio che più vediamo più ci sembra bello, ma nel fare ciò, nel “ritornare” appunto, noi dimentichiamo il desiderio. Cos’è il desiderio? Si desidera ciò che non si ha e in genere ciò che non si ha equivale a ciò che non si è (o non si sa di essere). Ecco allora che nel “ritorno” noi preferiamo chiudere gli occhi al nuovo volgendo lo sguardo solo a ciò che conosciamo ignorando il sussurro del fanciullo interiore troppo esile per essere ascoltato. Un tale sussurro diventa però una voce prepotente nei casi di “allarme” quando appunto ci volgiamo al nuovo e non avendo più schemi a cui rivolgerci dobbiamo improvvisare una soluzione. Per evitare la tensione della creazione o semplicemente la preoccupazione di cavarcela in una situazione nuova, (l’esempio dello smarrimento è ancora pertinente) gli altri hanno già pensato per noi, pianificando stabilendo delle regole, delle strade da seguire o dei comportamenti tipo, atteggiamenti e valori preventivati che vengono introdotti nella nostra coscienza, senza che noi possiamo accoglierli criticamente e con giudizio. In tal senso si può parlare di violenza e cioè di intrusione acritica o indesiderata, uno stupro psicologico che ci rende muti sordi e cecati di fronte al mistero della vita, il più affascinante capitolo dell’irrisolto.
Nel momento in cui gli altri ci offrono o ci impongono la loro interpretazione della realtà, un mondo di valori già confezionato e stabilito, etichettato e preventivato, dove ogni rischio è minimo o calcolato e domina la stasi la calma e la costanza, ci violentano nel bene e nel male, nella democrazia o nell’autorità, costringendoci a rinunciare alla nostra ricerca, al desiderio, sopprimendo un modo di intendere scomodo e pericoloso, mostrandoci invece un soffice cuscino su cui dormire.. Nell’atto di dormire noi chiudiamo gli occhi e ci adagiamo sapendo che è tutto sotto controllo e che non c’è niente di cui preoccuparsi; se al contrario decidiamo di restare svegli, insonni quindi, è perchè qualcosa ha bisogno di un’ulteriore elaborazione, deve essere rimuginata e colta, valutata e compresa.
Quando i bambini sono capricciosi e irrequieti, li si manda a letto a dormire o si dice loro: “stai buono, non ti muovere, fai silenzio”. In queste tre parole - buono, muovere e silenzio, possiamo rivedere il senso di quanto detto, infatti, il fare il bravo o l’essere buoni si traduce (anche a scuola) nell’essere conformisti o anche, in tal senso, eterodiretti, giudiziosi inquanto malleabili, plagiabili. Al contrario sulla lavagna, nella lista dei cattivi vengono annotati quei bambini che si muovono troppo, che parlano o che fanno i capricci, che protestano per un’etichetta a loro troppo stretta, per un destino che non gli (o li) appartiene.
Questo atto di protesta, nel rapporto viene dall’atro percepito come tradimento, come in subordinazione e diserzione nei suoi riguardi, infatti nel momento in cui usciamo dai canoni collettivi e tradiamo la società ribellandoci alle sue regole, indirettamente cerchiamo qualcos’altro, seguiamo quella voce interiore che è solo nostra e non appartiene a nessuno ... siamo soli.
L’eroe, il nato due volte, è scacciato così dalla sua patria, rifiutato, “vomitato”, ed in questo simbolico gesto di rigetto, noi espelliamo o reprimiamo un nutrimento interiore irriconosciuto e svalutato, la nostra voce interna, il fanciullo di prima.
Appellarsi ad un ordine esterno ed universale equivale a dormire ovvero a non desiderare, adagiandosi nella prevedibilità. Non desiderare l’altro significa avere la certezza che questi non ci sfuggirà, le cose che ormai abbiamo conquistato e che sono nostre non le desideriamo più perché il desiderio è ricerca, bramosia e come dicemmo creatività: l’assenza della paura di sapere.

Significato, senso e contenuto del rapporto
Nella vita in genere, si inseguono due cose, che si escludono a vicenda: il potere, la gloria o la fama, oppure i sentimenti. Il primo si identifica nell’amore, dove essere gratificati, significa ricevere l’ammirazione degli altri, o nei casi migliori, la propria; i secondi, i sentimenti si traducono in relazione, rapporto con gli altri, ricerca di se stessi e di un senso della vita.
In questo disperato tentativo da parte dell’uomo, di dare un senso alla vita, consiste il vivere o l’essere, l’esistere e parafrasando il celebre detto ... “io so di non sapere”, potremmo dire ... “io so di non essere” ovvero io so di non vivere, vivo a metà e cerco la totalità.
Si deduce che vivere è la più alta lezione, che l’essere umano possa comprendere, (vivere) significa in un linguaggio onirico, muoversi, vedere, udire e toccare come al solito, l’altro.
Così, come “io so di non sapere” significa sapere qualcosa e voler ricercare altro sapere, allo stesso modo, “io so di non essere”, significa che per sapere, bisogna vivere e dunque essere: la conoscenza si raggiunge con l’esperienza dell’altro che naturalmente si traduce tramite la proiezione, in autocoscienza. In definitiva, se l’esperienza rivela e la vita svela, chi vive finisce per essere. Ecco allora la più grande opera persuasiva dell’analista: indurre il paziente a “mordere la vita”. In altri termini, la furbizia del diavolo, consiste nel farci credere che non esiste e si traduce per noi, nella rimozione di tanathos, ma il male non va dimenticato, va, come dicevamo, solo vissuto.
La professione dell’analista è una professione nobile come quella del medico in quanto si è la causa del cambiamento altrui. Ciò che si tenta di dare all’altro sono competenze e strumenti di potere validi ad interpretare ed influire sugli eventi della vita, diventarne l’artefice, in funzione della natura personale del paziente; ciò che si riceve è il suo consenso, le sue congratulazioni.
Generalizzato al massimo, questo discorso vale anche per la coppia: ciò che rende forte il legame tra due persone è appunto il percepire, l’essere convinti di essere la causa dell’estasi dell’altro, si è cioè il suo nutrimento e la sua ragione di esistere. Quante volte il nostro amante ci dice: “Non so come farei senza di te”. Naturalmente questo sentimento può essere reciproco ed entrambi si percepiscono come il benessere dell’altro, sono cioè, come di dice, “cotti”, pronti per mangiarsi a vicenda, nutrendosi l’uno dell’altro. Ora però, succede qualcosa di straordinario ed improvviso, inaspettato: così come per gustare il cibo bisogna avere fame e per nutrirsi di qualcosa si deve essere digiuni, nella relazione, la circolarità di contenuti che fluisce tra i due spasimanti, diviene ad un tratto ripetitiva e prima o poi si perviene ad un impàsse. In realtà, in genere, la coppia si accorge di questa “viziosità” solo alla fine, sempre con un attimo di ritardo, quando ormai la ripetitività, come un tumore, ha intaccato le fondamenta stesse del rapporto: scoppia la guerra. Ecco allora che il matrimonio diviene una garanzia per il benessere sociale, un freno all’istinto froidiano distruttore e cieco, ma paradossalmente, creativo.
Tradire è connaturale all’uomo (e agli animali che lo fanno regolarmente), così come il bambino abbandona un giocattolo, dopo averci giocato, ecco che la legge del matrimonio serve a ristabilire l’ordine e ad impedire il caos, trasformando il dolore da esterno e visibile ad interno e nascosto, celato nella coppia stessa alla quale si chiede di sopportare il male per il bene di tutti.
Tradire, può significare semplicemente cambiare o crescere, ricercare, ecco perchè è una cosa naturale.
A ben vedere, tutti sanno questo, in fondo ognuno di noi si annoia rifacendo quotidianamente le stesse cose. Ma perchè si è ripetitivi? perchè non si riesce più a crescere, a vedere le cose in modi nuovi, a testa in giù, senza perdere l’equilibrio, senza cadere nel caos. Ve la figurate una società senza il matrimonio, dove ognuno sta con chi vuole ... di chi sono tutti quei figli?, chi li cresce?. Tuttavia non è necessario rischiare così tanto e buttare al vento secoli di riflessioni, per migliorare la convivenza sociale; è necessario però darsi una mossa, aprirsi agli occhi ed accorgersi per tempo che chi ci circonda, chi ci sta vicino, sta per abbandonarci, ma ancora non lo sa. E’ doveroso a questo punto cercare di salvare la relazione. In genere questo fatto lo si fa in due modi: o svegliando i due assonnati, o dando loro dei sedativi.
Svegliare significa però fare i conti con l’istinto distruttore, che non sempre si può domare e che anzi oserei dire garantisce, in definitiva, la creazione del nuovo, non necessariamente all’infuori della coppia. Infatti, così come dopo una sfuriata, ci si sente stanchi ed affannati, nel rapporto la stanchezza si traduce in desiderio dell’altro... si dice in questi casi: “sono stufo di prendermela con te”.
In confidenza, non si può pretendere molto dagli esseri umani, a volte ci si innamora per sciocchezze, perchè l’altro è bello, perchè è una persona dinamica, o perchè è capace sul piano professionale ed ha molti amici simpatici o perchè è sempre sorridente e disponibile. Quando si chiede ad una donna perchè ha sposato quell’uomo (e viceversa), si possono ottenere delle risposte oltre che disparate ed inimmaginabili, assurde. Ciò dimostra ancora una volta che nella relazione niente è scontato, nulla prevedibile, quasi tutto irrazionale. Le strutture globali delle due persone, si richiamano si cercano e si integrano, si completano, si scontrano e si affiancano, secondo modalità sì prevedibili, ma a patto che si conosca o meglio, si sia vissuta l’intera vita dei due protagonisti. Curioso è piuttosto l’accanimento all’errore, ovvero la necessità che ognuno ha di attuare una proiezione ingannatrice, ma che allo stesso tempo permette un vissuto straordinario, un sentimento dilatato. E’ come dire ... preferisco saltare per prendere qualcosa, che è fuori della mia portata, pur sapendo che perdendo l’equilibrio, cadrò per terra, infrangendo quella cosa meravigliosa, che ho creduto per un attimo di avere.
Possiamo paragonare questo tipo di esperienza a quella di un drogato. Egli non cerca, come l’alcolizzato, di dimenticare il mondo, di lasciarsi tutto alle spalle o di calpestare la realtà, pur di non essere perseguitato e sopraffatto da questa, anzi cerca un’emozione nuova, il proibito, qualcosa di irragiungibile e sacro, cerca una vibrazione mistica indecifrabile, un’oltrepassare la realtà stessa a spada tratta.
In sostanza, ciò dimostra come le persone siano disposte, pur di mettere le mani su qualcosa di nuovo e di attraente, di sconvolgente e proibito ad auto ingannarsi, a dimenticare o non considerare, a non accorgersi del “bluff”, pur di godere di quell’attimo...

Verso un metodo di comunicazione creativa
Le persone che più riescono nelle cose sono quelle persone che credono fermamente in ciò che fanno, vale a dire, sono convinte che il fare quella determinata cosa, possa loro arrecare soddisfazione.
Qualsiasi compito svolgiamo, viene da noi ritenuto più o meno idoneo a soddisfare certe nostre esigenze, alcuni bisogni che motivano una certa azione. Ebbene, la convinzione che quella determinata cosa, o l’esecuzione di un certo compito, ci garantisca un certo piacere, è fondamentale, per la riuscita stessa dei nostri intenti. Il ritenere, ad esempio, che leggere un particolare libro, o andare in analisi, possa servire a raggiungere un nostro obiettivo, o a farci star meglio, migliorando la qualità della nostra vita, ci spinge a concentrare le nostre energie in un’unica direzione, esplicando quel particolare compito. Nella dedizione e nell’impegno, che riversiamo sull’oggetto - compito, percepito come utile ed idoneo a soddisfare un nostro bisogno, sta appunto la molla della motivazione e quindi del successo.
Essere motivati e quindi convinti dell’efficacia delle nostre azioni, è dunque necessario, affinchè un certo progetto sia attuato, e portato in porto. Ora, i progetti, le aspirazioni, i desideri, possono essere relativi e mutare col tempo, ma io credo che in genere, in gran parte dell’arco di vita di un uomo, ci siano delle costanti, delle certezze di fondo su ciò che ci possa far star meglio. Una di queste costanti sulle quali è difficile avere dubbi, sono appunto le donne. In questo senso mi piace l’espressione donna-oggetto, vale a dire obiettivo, soluzione, risposta alla semplice domanda: “che fare?”.
Del resto gli antichi lo avevano capito bene, e nel racconto biblico di Adamo ed Eva, si fa presto a capire che nei pensieri di Adamo c’è Eva e viceversa. Tuttavia le cose si sono complicate notevolmente da allora e numerosi vocaboli si sono interposti tra questi due soggetti: parole come relazione, rapporto, affinità, scambio, legame e via dicendo.
Tutto questo ci spinge a porci una semplice domanda: “rapporto si, ma come?”.
Le persone, molto spesso non sono motivate ad instaurare relazioni di qualsiasi tipo esse siano, dalle più superficiali alle più compromettenti. Infatti, ed è una cosa che sperimentiamo tutti i giorni negli incontri casuali, dovunque ed in qualsiasi circostanza, le persone tendono a dire sciocchezze, cose superflue; parlando per strada nel posto di lavoro, durante il tempo libero, con gli amici o con gli estranei e perfino in famiglia, si preferiscono chiacchiere insignificanti, discorsi che non vanno a parare da nessuna parte e che sono perlopiù tecnici, informativi, raramente emotivi. Oltre alla nota paura di sapere e quindi di parlare per indagare, c’è un’altro motivo per cui si dicono tante futilità. E’ la mancanza di motivazione, che deriva dal percepire l’obiettivo, lo scopo, in maniera sfocata e l’oggetto, ovvero l’altro, come risposta inadeguata o incongruente. Che significa? significa che siamo distratti, come assenti e non siamo convinti che l’altro possa offrirci o sollecitare alcune risposte, alcune soluzioni o semplicemente migliorare una situazione già esistente. Questo accade, perchè noi tendiamo a voler cercare le risposte ai nostri problemi in noi stessi, come se fossimo soli o come se da soli potessimo stravolgere il mondo e le regole del gioco. In realtà può anche essere così, le potenzialità di ognuno di noi sono del resto inimmaginabili ed illimitate, ma è difficile svilupparle, ed uno dei metodi è appunto il rapporto. Il rapporto apre se stessi e gli altri, permette lo sviluppo, facilita la crescita e tuttavia quando camminiamo per la strada o discutiamo con qualcuno, tendiamo a sfuggire agli altri, a non vedere, a non ascoltare, a non chiedere, probabilmente per la paura di sapere o di rischiare (che è la stessa cosa).
Mentire, come ho già detto è facile, ed è già qualcosa se ci si accorge di farlo, ma perchè non affrontare invece il rischio, non mettersi a nudo e giocare il tutto per tutto?.
Per far ciò, per giocare con l’altro, bisogna essere educati a farlo e purtroppo la società ci offre dei modelli che ci spingono a fare il contrario, ad essere falsi, a prevedere, a saper calcolare, a correre meno rischi possibili, a premeditare le cose, a svolgere una vita tranquilla e senza scossoni: la società soffre del complesso “calma piatta”.
Dormire, adagiarsi nella prevedibilità del metodo, nell’ordine e nel rigore, significa mentire, essere ipocriti verso se stessi e gli altri, essere prevedibili, salutare dicendo “buon giorno e buona sera ... come sta? ... bene, non c’è male ... potrebbe andare peggio”. Rispondere così significa chiudere le porte all’altro, disperdersi nella folla impersonale, non dire nulla di nuovo, essere niente, significa non farsi conoscere per quello che si è.
E veniamo così ad uno dei nodi più spinosi della nostra indagine sul rapporto e cioè: “come farsi conoscere?”. La cosa più difficile nel rapporto è mostrarsi per quello che si è, ammesso che uno ne sappia abbastanza in merito.
Mostrare i propri contenuti è un’esperienza che richiede oltre alla coscienza di tali contenuti, gli strumenti per farli uscire fuori e renderli visibili agli altri; contenuti che ci riguardano da vicino, ci toccano e ci possono far perdere l’equilibrio. Ecco perchè il valore di una persona o di un’amico o di un’amante, lo possiamo immaginare come quella capacità, che ha di comunicare (parlare e ascoltare) con noi. Tutti vorremmo intorno a noi persone sincere e vere, che facciano discorsi per noi significativi, ma è difficile comunicare col sentimento in maniera naturale, aperti e disposti ad accogliere le particolarità dell’altro. Poterlo fare, significherebbe arricchirsi, crescere, avere una visione elastica delle cose, le quali non sono immutabili, definite una volta per tutte, eterne, ma relative e condizionabili. Significa in altre parole, apprendere rimanendo ingenui e perciò rischiare in prima persona.
Questo desiderio di arricchirsi interiormente, è patrimonio di tutti gli uomini, fa parte dell’inconscio collettivo, infatti nei miti, nelle favole, nei films o se vogliamo nei nostri sogni, c’è una persona che cammina, il protagonista, l’eroe o il soggetto del sogno appunto, che percorre una via, un percorso a tratti inpervio, mutevole, meraviglioso, ostile, avventuroso, misterico e rivelatore. C’è sempre nei sogni degli uomini, un percorso e un percorrente, in ultima analisi il soggetto stesso, che alla fine del viaggio scopre qualcosa ... l’oggetto, l’altro, o meglio, un tratto della propria personalità.
Se da un lato la conoscenza è così importante e necessaria, mettere l’altro nelle condizioni di conoscersi intimamente per quello che siamo, è difficilissimo. Un esempio che si potrebbe fare, è quello dello studente all’esame. Questi ha l’obiettivo di mostrare i suoi contenuti, il suo sapere al professore, il quale cerca di facilitare l’emergere di tali contenuti. E’ un po' la stessa situazione dell’analisi, dove si tratta di aiutare il paziente a guardarsi dentro e a mostrarsi per quello che è, o che crede di essere, portando alla luce esperienze, sentimenti, emozioni. In analisi, come all’esame, in entrambe le situazioni, si è motivati a farsi conoscere dall’altro, ci si impegna a fondo e totalmente perchè si è convinti che nel fare ciò, si fa qualcosa di utile a se stessi, cioè serve. Paradossalmente, nel rapporto in genere, e parlo anche degli incontri casuali giornalieri, la motivazione sembra scomparire e l’altro serve solo a sentire le nostre chiacchiere superficiali, ciò che diciamo tutti i giorni a chiunque ci capiti. E’ un problema quindi di motivazione, l’essere cioè convinti che l’altro possa offrirci qualcosa, o meglio credere di poter mettere l’altro nelle condizioni di poterci dire qualcosa di valevole.
E’ questa una prospettiva sociale di vedere i problemi e la vita in genere, ricercare cioè le risposte oltre che in noi stessi, intorno a noi, nella comunità, un’insieme di individui, che hanno tra loro rapporti di interdipendenza, di influenza, di reciprocità, di accettazione, dove le persone possono sperimentare un senso di similarità e di connessione emotiva, percependosi importanti gli uni per gli altri, al fine di soddisfare i propri bisogni, che sono poi complementari e condivisi dagli altri. In sostanza, appartenere ad un gruppo, o partecipare alla vita di comunità conviene perchè il gruppo è efficace ed ha successo, ha cioè il potere di gratificarci.
La risposta che cerchiamo, in definitiva, è la verità, cioè l’autenticità dell’altro, la sua sincerità, la sua franchezza, le sue confessioni, le sue confidenze, cose insomma che permettono un rapporto vero, fondato sullo scambio emotivo dei sentimenti e delle emozioni. Come si sollecita un tale dialogo? cos’è che rompe gli schemi e ci scaraventa in una dimensione nuova ed imprevedibile, “altra”, unica, cos’è che apre le porte, rompe le barriere penetrando direttamente nell’intimo e sollecitando una risposta autentica e sentita? facile ... la creatività. Tutti la conosciamo, tutti siamo stati e siamo a volte creativi, ma la società ci ha disimparato ad esserlo, e se passeggiando per le strade permettiamo al nostro istinto creativo di prorompere, veniamo presi per pazzi, incontrollabili. Chi è in preda ad un momento di follia, si sa, non dice mai il falso, le bugie si calcolano, si prevedono, sono elaborate in vista di un utile, vengono escogitate, la follia invece straripa ed erutta violentemente e spontaneamente, senza freno nè interessi e perciò è sconvolgente ed inquietante, denuncia tutto.
Nel rapporto, non dobbiamo essere nè folli, nè originali a tutti i costi, ma dobbiamo utilizzare la creatività come metodologia e strumento per entrare in relazione diretta con l’oggetto, e cioè con l’altro.
Non essere falsi, ma creativi, richiede però uno sforzo e quindi un rinforzo... il sì dell’altro. Per far sì che ciò accada, è necessario che ognuno di noi ponga ad esame critico quelle norme, quegli atteggiamenti interiorizzati, che “orientano al valore” e indirizzano il modo di agire degli individui, una sorte di “concezione del desiderabile” che costituisce il valore culturale stesso, ovvero il miglior modo di pensare e di agire. Porre ad un severo esame critico il processo di inculturazione, significa ritirare in parte le proiezioni reciproche che si sono insinuate tra noi e il nostro gruppo, proiettato dentro di noi attraverso norme, leggi ed atteggiamenti che orientano gli individui nelle diverse situazioni, secondo schemi riconosciuti e legittimati: è la cosiddetta “pressione ambientale”.
Lo so, è un’esame difficilissimo, poichè come afferma l’antropologia culturale: ”io sono il mio gruppo, io sono il gruppo a cui appartengo e che è proiettato dentro di me”; comunità, gruppo sociale, villaggio, città, nazione, partiti, sono qui considerati sinonimi il cui archetipo è naturalmente la famiglia.
Per automotivarci a compiere un tale arduo riesame critico, suggerirei di chiederci quali sono le cose più importanti per noi, vi inviterei cioè a riflettere su quali siano stati i momenti in cui ci siamo sentiti più soddisfatti, più gratificati e realizzati. Rispondere con la parola rapporto è facile, così come è chiaro che la carenza di contatti sociali determina noia e malessere. Il problema dunque è chiaro: “rapporto sì, ma come?”. L’entrare in relazione con, richiede una certa partecipazione, una complicità di entrambi, una disponibilità al dialogo e al coinvolgimento, dunque la consapevolezza che tutto ciò valga a qualcosa, sia cioè utile.
Se lo scopo è il rapporto, il primo passo è convincersi e convincere l’altro che investire una certa energia nella direzione del dialogo, finalizzato alla comprensione dell’altro ed alla realizzazione di uno scambio, valga la pena e sia alla fine gratificante per entrambi. Attuato questo primo passo che chiameremo “convinzione”, iniziamo ad esaminare il metodo di lavoro e cioè la modalità creativa di entrare in relazione con l’altro.
Prima però occorre esaminare attentamente i vari significati della parola creatività: creare significa inventare, ideare, concepire, ma anche causare determinare, provocare, costruire, realizzare, far nascere e portare alla luce; il contrario di creare è distruggere, cioè ridurre al niente, a zero, dissolvere ciò che prima esisteva, ovvero demolire, cancellare, disperdere, sopprimere, uccidere.
Comportarsi in maniera creativa, significa essere il soggetto, il contenitore di un’infinità di proiezioni da parte degli altri. Infatti la personalità creativa è multidimensionale, indefinibile, inprecisabile, inspiegabile, ineffabile, vaga, illogica, ed è proprio questa multidimensionalità e multicaratterialità che la rende contenitrice di qualsiasi proiezione, di qualsivoglia fantasia da parte di chi ascolta. Caratteristica del dialogo creativo è infatti la multilateralità stessa dei contenuti del discorso, che si integrano ed interagiscono secondo modalità intersistemiche, percui il totale non è soltanto la somma dei singoli elementi, ma qualcosa di nuovo, di originale. Queste persone suscitano e provocano la proiezione. E’ la proiezione che alla fine del processo di innamoramento, permetterà la presa di coscienza dei contenuti rimossi, così preziosi per la nostra integrità psichica. La proiezione diventa quindi la molla, che fa scattare il processo di ricerca, la causa che scuote l’equilibrio e la stasi, creando desiderio, dunque mobilità delle forze psichiche, squilibrio e bramosia o convinzione. Grazie alla proiezione, il soggetto percepisce una mancanza in sè, ed una abbondanza nell’altro, investito di qualità, che in realtà sono proprie del soggetto.
La mancanza crea un bisogno e quindi fa scattare la molla della ricerca ... scatta l’indagine.
Il nostro scopo era proprio questo: mettere in moto, smuovere l’altro, risvegliarlo dal torpore abitudinario, renderlo vivo e partecipe, canalizzare la sua energia nel rapporto.
Il rapporto inizia allora nel momento in cui incominciamo ad interrogarci insieme e percepiamo gli altri come coloro che possono offrirci qualcosa e ciò avviene grazie appunto alla proiezione. C’è però un ma: finchè c’è proiezione, c’è dipendenza e se c’è dipendenza, l’unione non comporta una crescita di entrambi, perchè uno dei due è con le mani legate, è cioè dipendente. Tuttavia è proprio la proiezione, che ci fa mantenere vivo il rapporto, ed il desiderio. Nel momento in cui si è completamente consapevoli dei propri limiti e dei limiti e dei pregi dell’altro, il rapporto non ha più motivo di esistere, in quando non si attuerebbe quello scambio di contenuti ritenuti importanti, perchè ognuno crede di esserne privo. E allora? e allora il rapporto, ahimè, è destinato ad infrangersi e a finire, essendo per definizione qualcosa di precario, di mutabile, dinamico; del resto la mente stessa è dinamica, cioè dotata di energia e mutevole. In tal caso però ciò che conta, al contrario di come siamo abituati a pensare, non è il risultato finale, ma il percorso, che qui coincide con la vita stessa.
Essere se stessi e cioè genuini e spontanei nella comunicazione o nel rapporto, è una cosa che si può imparare. La disponibilità all’ascolto e l’autenticità, favoriscono la reciprocità e l’accettazione acritica; l’altro si sente valorizzato e ciò alimenta atteggiamenti positivi di reciproco rispetto, che a loro volta incoraggiano la comunicazione, creando un clima collaborativo, amichevole, incentivando ad esprimere i propri sentimenti in modo chiaro e diretto.
Come in qualsiasi opera educativa (o che pretenda di essere tale), è a livello relazionale, che si gioca l’efficacia dell’azione comunicativa, ed è quindi lo “stile” relazionale, che viene assimilato nel rapporto vero, quello interattivo e coinvolgente.
Nel mondo delle relazioni interpersonali, ciò che conta veramente è l’accettazione e il rispetto dell’altro, il coinvolgimento attivo nel superamento degli stereotipi di giudizio, critica, inaccettazione, che la nostra società ci ha inculcato.
I presupposti della comunicazione creativa sono dunque: genuinità, sincerità, naturalezza, spontaneità, accettazione acritica ed empatica, interdipendenza, cioè la convergenza di scopi ed obiettivi, motivazioni, bisogni e desideri. Il dialogo diventa uno strumento, per conseguire la realizzazione e il soddisfacimento dei propri bisogni, che poi sono anche i desideri dell’altro.
E’ proprio questa, la più grande scoperta, che possa scaturire da un dialogo creativo: la complementarietà dei bisogni, da cui la connessione emotiva e la “ricompensa reciproca”. Tutto qui.

Meraviglia e stupore
Nel rapporto la cosa più bella è stupire se stessi.
Uno dei presupposti della creatività, un modo per accorgersi ed accertare un comportamento creativo, è lo scoprire se stessi fonte di meraviglia.
Durante il dialogo, all’interno della coppia, si stabiliscono delle aspettative che permettono ad entrambi di vivere nella consuetudine e nell’abitudine, approvando indirettamente ogni comportamento e instaurando pregiudizi e sterili convenzioni sterotipate.
In questa atmosfera del “quieto vivere”, non serve pensare, i concetti sono già belli e pronti, qualcuno ha già meditato per noi, ha già ponderato le diverse situazioni possibili e i relativi comportamenti, gli atteggiamenti e le condotte. E’ il clima dell’indifferenza, del disinteresse e della freddezza, della non partecipazione; è come dire: “lasciatemi in pace, voglio riposare... ho sonno”.
A questo punto, se vogliamo entrare nel mondo dei “vivi”, non ci resta che l’inganno, un tranello simbolico che sgambetta il partner e rompe l’equilibrio creando uno scompenso, tradendo un’aspettativa ed aprendo quindi le porte alla meraviglia e allo stupore.
In questo momento l’altro si trova in una situazione nuova alla quale non è abituato e che non sa tollerare in quanto va continuamente interpretata e valutata: c’è una perdita di controllo e il soggetto inizia a “scivolare” sentendosi smarrito, stordito e nello stesso tempo eccitato; diciamo allora che è in preda all’inquietudine di una vertigine, parola che esprime molto bene l’intollerabilità che deriva dall’essere costretti a pensare in prima persona, elevandosi al di sopra del vincolo che ci lega ad uno schema preconfezionato e stabile.
...Non resta che piangere: è la prima reazione di chi sta precipitando e non trova punti di appoggio a cui aggrapparsi e riferirsi, ma superata la fase di disperazione il soggetto inizia da solo a ricostruire e reinventare la situazione.
Partendo quindi dal tradimento e cioè dalla sorpresa improvvisa ed inaspettata come la meraviglia e la vertigine (in senso l’uno positivo, l’altro negativo) siamo giunti ad una ristrutturazione e cioè abbiamo posto l’altro in una situazione nuova e paradossale che richiede di essere interpretata.
Il tradimento di cui parlo, non è naturalmente l’infedeltà matrimoniale vera e propria, ma una sorta di slealtà nei confronti dell’altro a cui abbiamo promesso (se mai lo abbiamo fatto) onestà, sincerità, fedeltà, serenità o, se vogliamo, educazione. La slealtà è quindi un venir meno ad un’aspettiva che l’altro aveva riposto in noi, un inganno che crea la situazione inaspettata di cui parlavamo e che tradisce la fiducia dell’altro, venendo meno ad una sua aspettativa e smascherando la nostra individualità da ogni delusa attesa.
Una situazione simile per molti versi ed ancora più positiva è quella che si crea quando ascoltiamo (mi metto nei panni del tradito) una poesia che ci sembra molto bella e rivela d’improvviso qualcosa. Ascoltando i versi (lo stesso vale per un discorso creativo) ci rendiamo conto di come il poeta riesca a sorprenderci e a rivelarci, attraverso paragoni, collegamenti, associazioni inconsuete e simboliche, sensazioni e concetti che raramente trovano forma e modi di espressione adatti al loro pregnante significato.
Ascoltando quei versi noi ci riscopriamo con meraviglia gli artefici, insieme al poeta, di quelle rappresentazioni ed in immagini simbolicamente descritte tramite l’interpretazione personale. Nella comprensione di una poesia, potremmo dire che una rappresentazione virtuale (la nostra), si incontra con una rappresentazione reale (del poeta), e nell’unione del potenziale immaginale con il reale effettivo troviamo la creatività che adesso si è resa visibile.
La creatività è qualcosa che esiste solo nella complicità, da sola non ha senso, richiede la partecipazione catartica di chi ascolta comprende e vive quella fantasia. Così, come nella musica, l’interpretazione necessaria ed ineliminabile, fa sì che l’interprete riviva in sé l’originale intuizione dell’autore, anche nel rapporto terapeutico ed amoroso, l’energia e la forza creativa dell’uomo innesca un processo circolare che fa vivere nell’amato il desiderio dell’amante, presupposto e allo stesso tempo pretesa e ricerca di cambiamento e di trasformazione psicologica.
In questo istante, il paziente come l’amante percepisce lo stupore di sperimentare dentro di sé il desiderio del terapeuta o dell’amante che diventa così “visibile” ad entrambi e da virtuale, reale.

Tutto adesso
Uno dei problemi fondamentali nel rapporto è l’essere presenti a se stessi, cioè l’accorgersi di situazioni ed emozioni di sé e dell’altro. Spesso infatti la nostra percezione è poco limpida, meno intensa del solito, offuscata e troppo debole per mettere in rilievo gli aspetti significativi della relazione, quelli piacevoli e pregnanti che ci conducono verso un’espressione intensa dei nostri moti creativi e personali.
Sto parlando di quella voglia di vivere e dell’entusiasmo che ci rapisce in particolari momenti, quando crediamo intensamente e tenacemente ad un’idea che viene, così, caricata emotivamente ed appare in tutta la sua evidenza e influenza.
Lo stesso discorso vale nel rapporto dove è solo in pochi particolari momenti che noi siamo pronti veramente ad accogliere e ad accorgersi dell’altro e di noi stessi. Dobbiamo allora sviluppare una “cultura” di questi momenti così limitati nel tempo, per renderli più durevoli e comandabili o richiamabili. Allenarsi ad essere in sintonia con l’altro, richiede la capacità di “riconoscere il momento giusto” per entrambi ed amplificarlo tramite un gioco di proiezioni che intensificano la convinzione e rinforzano l’intero ciclo. “Tutto, adesso”.
Questa legge esprime bene la fortuna e la riuscita della relazione ovvero della complicità: “entrambi, ora”.
Per ottenere simili risultati, è necessario, come dicevo, una certa cultura della complicità e, più in generale, del piacere.

Educazione e creatività
Bisogna educare sin da piccoli i bambini ad avere una visione ampia del piacere e non ristretta ed indirizzata in particolari direzioni. La creatività consiste proprio in questa capacità di trovare il piacere cercandolo nelle direzioni più inconsuete ed insolite, significa avere una concezione elastica, multilaterale del piacere stesso, essere attratti dal variegato e multicolore mondo dei diletti, delle soddisfazioni, delle gioie dalle più facili e giornaliere come ad esempio trastullarsi in allettanti e fascinose conversazioni, alle più ricercate ed elaborate come una partita a tennis, fino alle più elevate emozioni di una composizione musicale.
Nessuna di queste cose in particolare può forse soddisfare quella esigenza di pienezza totale, che corrisponde alla mancanza di qualcosa di essenziale nella vita di ciascuno di noi, ma se ci caliamo in un’ermeneutica della complessità e riusciamo a ristabilire il rapporto interrotto con il vissuto piacere, possiamo allora credere di recuperare attraverso una forte motivazione al cambiamento, quelle parti di noi così rivoluzionarie e creative che siamo stati disimparati ad usare.
In due parole:educazione al piacere (o ai piaceri); educazione all’entusiasmo, all’eccitazione, all’ardore, all’impeto, all’ebbrezza, all’esaltazione del rapimento, all’estasi, alla passione, al fervore, all’amore... è questa la vera educazione, il giusto insegnamento e l’autentica formazione che dobbiamo dare ai nostri figli affinchè coltivino esercitino e nutrano la loro creatività e gioia di vivere.
In questa visione delle cose, la creatività è senz’altro legata al piacere, anzi è la strada ed il mezzo che conduce ad esso, creando concordanza tra il mondo in cui viviamo e il mondo che vive in noi. La chiave interpretativa che vorrei offrire con queste parole è la meraviglia e lo stupore, l’incanto e l’autosuggestionabilità come atteggiamento verso la realtà e gli altri, una porta aperta ad un piacere da interpretare e creare. E’ proprio grazie a questa ermeneutica della complessità, che possiamo guardare all’altro/a soprattutto in una dimensione simbolica, come segno di una Realtà che attraverso lui/lei viene resa accessibile, nell’incessante tendenza alla soddisfazione di un’esigenza di pienezza totale, che corrisponde alla mancanza di qualcosa di essenziale nella vita di ciascuno di noi (Venturini).





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