La professione di prete, come quella di psicologo, è una professione d’aiuto, il cui fine è quello di fare stare meglio l’altro. Tali professioni sono anche chiamate professioni d’ascolto, in quanto danno particolare importanza al momento narrativo che diventa poi confessione. Ascoltare non è facile, esso implica una certa vocazione, vale a dire un talento nel saper gestire quella particolare relazione che si sta formando tra chi parla e chi ascolta. Per saper ascoltare è necessario controllare il proprio desiderio di intervenire nel discorso dell’altro con suggerimenti e consigli che potrebbero spegnere la spontaneità dell’altro. Ascoltare, dunque, implica un fare silenzio, almeno in un primo momento.
In psicoterapia, la confessione è il primo stadio del processo psicoterapico, durante il quale la persona si libera dei propri segreti e di tutto ciò che occulta perché considera riprovevole. Alla confessione fa seguito un sollievo per aver permesso l’emersione, la fuoriuscita da sé di contenuti oscuri quanto “pesanti”. Cosa, in genere si confessa? Una colpa. La colpa è l’infrazione di una norma, ed in ultima analisi, dice M. Heidegger, l’uomo è “gettato” nel mondo in vista di un “progetto” che, per realizzarsi, chiede il non progettarsi su altre possibilità. La colpa si radica quindi nell’infondatezza dell’esistenza, nella inautenticità del proprio progetto esistenziale che è un falso progetto in quanto fondato su dettami e leggi collettive e impersonali, non nostre. La colpa dunque può essere vista come un non fare, un non essere ciò che si potrebbe, in definitiva un non essere nel proprio talento. Dice K.Jasper che siamo responsabili di ciò che accade per non essere intervenuti, e se non facciamo ciò che possiamo fare, ci rendiamo colpevoli delle conseguenze che derivano dalla nostra astensione. Sono responsabile di ciò che accade e di ciò che accade in me stesso, cioè a partire da me stesso, a partire dal mio non essere felice. Ci si può sentire in colpa per non fare abbastanza, per non essere abbastanza, per non riuscire a darci il benessere, l’equilibrio, che risiede nell’espressione della nostra autenticità. Tale autenticità nasce in me nel momento in cui mi rendo cosciente di ciò che sono e di quali sono i miei reali desideri. E il desiderio nasce dalla frustrazione. Il racconto biblico della nascita dell’uomo come peccatore, narra la sua storia a partire da una condizione edenica di totale soddisfazione e gratificazione. Questo del paradiso terrestre è un tempo circolare, sempre identico, rappresentato simbolicamente dal cerchio e dall’assenza pertanto di ogni turbamento, di ogni anelito. Ad un certo punto però, la presenza del peccato e di una colpa gettano l’uomo nella storia, rompono cioè il tempo circolare e inaugurano quello lineare, che reca in se l’imprevedibilità, il turbamento e il dolore. Jung ha parlato di una felix culpa, fortunata colpa, nel senso cioè che se non vi fosse peccato, non vi sarebbe ricerca di redenzione, né sete di riscatto e senza l’esperienza della vergogna e della colpa, non saremmo spinti a cercare un senso per il nostro dolore. In questa tensione verso il senso si deve riconoscere ciò che ci rende uomini. Tensione, dunque progetto. Ora, l’esigenza umana di dare un significato agli eventi, dotandoli di senso, è una questione che richiede un senso religioso dell’esistenza. Jung parlava di una psicologia teleologica, nella misura in cui essa va verso qualcosa, a differenza dell’approccio freudiano che è di tipo meccanicistico e riduzionistico, che prevede una ricerca a partire dal passato. La persona sofferente si rivolge al prete o allo psicologo nutrendo la speranza di stare meglio, ed inizia a “confessarsi”. Cos’è la confessione? E’ un racconto, il racconto della propria storia attraverso i significati che quella particolare persona è stata in grado di attribuire agli eventi “significativi” della sua vita. E dietro un racconto c’è sempre un raccontarsi al cospetto dell’altro, il che implica un relazionarsi. Questo racconto permette ai partecipanti di entrare in un campo relazionale nel quale il fattore terapeutico e catalizzatore del cambiamento è la stessa relazione. La presenza di una relazione è il punto di contatto tra la professione del prete e quella di psicologo, dunque entrambi dovranno essere esperti sul come si gestisce una relazione. In psicologia si parla di relazione terapeutica a proposito del rapporto medico−paziente, in psicoanalisi di relazione analitica, connotata dalle proiezioni transferali e controtransferali. Già Jung sottolineava l’importanza centrale che la relazione ha nel processo di crescita del paziente, egli diceva: “il transfert è l’alfa e l’omega della terapia”. Ma cosa in realtà è il transfert? Una proiezione, uno spostare cioè qualcosa da me, soggetto che proietto, su di un altro. Nel transfert il paziente sposta sull’analista i propri conflitti intrasoggettivi che a loro volta sono residui delle relazioni intersoggettive reali o fantasmatiche che il paziente ha vissuto nell’infanzia, all’interno del rapporto con le figure significative, cioè i genitori. Il transfert dunque è una “riedizione” di qualcosa che viene dal passato, il ripetere una situazione vissuta altrove. In questa ripetizione è in atto una sorta di scambio: il paziente scambia l’analista o vede in lui una figura significativa del suo passato, un genitore, un padre appunto. In questa situazione transferale, i sentimenti sono sempre molto forti, spesso ambivalenti come ambivalenti erano i sentimenti del paziente verso le sue figure genitoriali. Tali sentimenti fanno insorgere una nuova situazione problematica che offre allo psicoanalista la possibilità di osservare dal vivo le problematiche di quel paziente, essendo coinvolto lui stesso in prima persona, nelle attuali dinamiche emerse. Non di rado, chi come il prete o lo psicologo fa dell’ascolto e della relazione degli strumenti di intervento, può imbattersi in situazioni alquanto rischiose che denotano un alto coinvolgimento reciproco. Sentimenti molto forti di attaccamento e attrazione reciproca possono mettere il professionista in una situazione che se mal gestita può portare persino, in via estrema, alla collusione e all’agito sessuale. Questo, purtroppo, è un disastro psicologico per il paziente che si era rivolto a noi per tutt’altri motivi. L’abilità del professionista, sta allora nel non respingere quei sentimenti intensi che si sviluppano nella relazione, ma nel dar loro una giusta direzione che è sempre quella di convogliare le energie disponibili, all’interno del percorso di crescita e di ricerca del paziente. Incanalare dunque, utilizzando il coinvolgimento reciproco per compiere un lavoro utile all’altro. I due protagonisti della relazione dovranno diventare “asceti” in vista di un obiettivo comune che è solo quello del paziente. Pertanto i sentimenti dell’analista, come quelli del prete, per utilizzare il parallelismo tra ciò che fa uno psicologo con i pazienti e ciò che fa il prete con i penitenti durante la confessione, potranno essere utilizzati come ciò che catalizza il cambiamento nell’altro, poiché rende le nostre parole ricche di convinzione e di enfasi, ricche direi, di fede. Abbiamo visto come la relazione sia il vero fattore trasformativo, ciò che spinge l’altro ad affidarsi, a mettersi nelle mani di qualcuno che possa affiancarlo nel suo difficile percorso di cresita, che come ogni percorso è ricco di difficoltà e di “cadute”. Tali cadute disorienteranno l’Io cosciente della persona, lo destabilizzeranno, ma questi, sono momenti necessari, perché il cambiamento implica l’abbandono dei vecchi punti di riferimento e l’adozione di nuovi e più funzionali alla vita di quella persona. Non è ardito definire il percorso di crescita come un viaggio che implica una “discesa agli inferi” ossia una “morte” volontaria, la quale comporta un abbandono appunto degli abituali modi di vedere le cose e i propri problemi. Attenzione pero! Le nuove risposte ai problemi del paziente, non possono essere date da un altro che non sia il paziente stesso. Solo a lui spetta il compito di raggiungere una sua intima verità, ogni altra verità che venisse suggerita dall’esterno, rappresenterebbe il tradimento della sua. Il prete, in effetti, indica al fedele una via “giusta” da seguire, la via del Bene, e per questa via passa il pentimento e l’assoluzione. A ben vedere lo stesso Freud dava dei suggerimenti ai suoi pazienti, ma sapeva bene che l’obiettivo principale di una buona terapia deve essere quello di mettere in grado il paziente di prendere da solo le sue decisioni importanti. Per fare ciò è necessario un ascolto fondato sull’empatia e l’accettazione incondizionata dell’altro, un accoglierlo senza giudicarlo. Ogni prete sa quanto sia importante saper porgere gradualmente al penitente una parola di cambiamento rispetto al suo modo di fare e di agire. Gradualmente significa non giudicare subito in modo drastico, ma cercare di mettersi un po’ nei panni di chi ascoltiamo, immedesimandoci empaticamente. Solo così l’altro inizierà ad affidarsi a noi, aprendosi perché si sente accettato, accolto. Nella mia esperienza di psicologo, mi sono imbattuto spesso in persone che soffrivano perché non si sentivano accettate da nessuno, ed in questo consisteva il loro “male”, la loro sofferenza. Quando si ha a che fare con queste persone, è difficile stabilire subito un rapporto di fiducia, proprio perché quella fiducia è stata minata sin da tempi remoti. Bisogna allora ricostruirla, ricrearla con un lavoro paziente e continuo, attraverso un investimento sull’altro di affetto ed energia. E’ altresì importante tenere presente che il “racconto” che l’altro fa di se stesso, è un racconto soggettivo che narra una realtà psichica. Per realtà psichica si intende una realtà non necessariamente accaduta, reale, ma anche solo fantasmatica, vale a dire, il vissuto di quella persona. Quanto alberga nella nostra fantasia e nelle nostre convinzioni è reale nella misura in cui produce degli effetti. Pertanto non è importante stabilire se un fatto traumatico sia realmente accaduto oppure no, se pensiamo sia successo, questo basta a dotarlo di potere su di noi, rendendolo “reale”. La realtà psichica, per fortuna può essere cambiata. Durante il cammino di crescita “spirituale” che sia il fedele che il paziente hanno, il loro abituale modo di considerare gli eventi cambia ed acquista un significato nuovo. Anche i desideri cambiano e diventano altri. C’è un esempio che ben rappresenta quanto limitati possono essere i nostri desideri quando ancora siamo solo all’inizio di un percorso spirituale di trasformazione: se noi chiediamo ad un bozzolo di esprimere un suo desiderio, esso si esprimerà in qualità di bozzolo e dirà di voler diventare un bellissimo bozzolo, ma ciò accade perché non sa ancora che, invece, diventerà una stupenda farfalla. Questo esempio mette in evidenza che noi possiamo avere desideri limitanti per noi stessi perché in quel dato momento, non possiamo vedere al di là di ciò che siamo, ma lo sguardo attento del bravo psicologo deve poter intuire che quello è un desiderio inautentico, falso perché limita il talento creativo di quella persona. Si apre qui un tema nuovo, quello della creatività e di come essere se stessi senza compromessi, per divenire, via via, sempre più padroni ed artefici della propria vita. Come spesso accade per alcuni termini che nel significato corrente vogliono dire qualcosa di ben definito, in psicologia, il termine creatività, assume invece dei significati più ampi. La creatività è una modalità di entrare in relazione con il mondo, quindi con l’altro, in maniera empatica, cioè immedesimandosi, mettendosi un po’ nei suoi panni. Questo consente, a chi ascolta una confessione o un racconto, di entrare in relazione profonda con chi gli sta di fronte, inoltre, facilita un coinvolgimento reciproco. Senza tale compartecipazione reciproca alla relazione duale che si viene a creare, non può esservi fattore trasformativo. La trasformazione dell’altro passa dunque per una relazione e noi, sia come psicologi che come preti, ne siamo coinvolti in prima persona. Un breve aneddoto può aiutare a cogliere il senso dell’approccio empatico all’altro: un artista cinese, al quale chiesero come facesse a dipingere un albero, rispose che quando era all’opera, lui smetteva di essere un uomo e “diventava” un albero! L’immedesimazione e l’identificazione consentono di entrare in una comunione intima con le cose e gli altri, un po’ come fa il “genio” che percepisce istintivamente le leggi della natura. Il creativo vive insomma gli oggetti all’interno di se stesso in maniera individuale e personale, creando qualcosa che è fedele alla propria interiorità: comunica “affettivamente” con gli oggetti, in maniera diretta ed empatica, rendendo così manifesta la propria interiorità, grazie anche, ad una estrema apertura all’esperienza e all’alterità. La creatività è dunque un modo unico e personale di relazionarsi col mondo, grazie ad un atteggiamento affettivo, che ci fa essere ingenui e fedeli a noi stessi. Il conflitto e la polarità sono all’origine della spinta creativa, ma a differenza dell’uomo comune, l’uomo creativo sa tollerare questa ambiguità, riesce a convivere con il conflitto da cui trae una forza motivazionale che lo fa apparire “irrequieto”. Ogni attività creativa nasce come attuazione di potenzialità iscritte nell’essere umano, perciò la creatività è un compito, un’attività che consente di modificare il proprio essere, nel lavoro di autotrasformazione dell’individuo. Non può infatti sfuggire il legame esistente tra creatività e individuazione, dal momento che proprio la creatività è, come scrive Aldo Carotenuto “la risposta che apre”, è ciò che rende l’essere recettivo al cambiamento. Creatività significa allora ricerca di un progetto aderente alla propria personalità, e come conseguenza di ciò, ne deriva che la sofferenza viene a coincidere con la rimozione della pulsione creativa latente in ciascun individuo. Generata dalla paura della vita, la rimozione della creatività è responsabile di ciò che Carotenuto definisce “frustrazione da nullità”, quella condizione nella quale si sopravvive in uno stato di anestesia psicologica, perseguendo obiettivi effimeri, regolati non dalle proprie autentiche aspirazioni, ma dai bisogni e dalle norme del collettivo. Nella tendenza ad essere creativi c’è invece la spinta a realizzare se stessi, facendo della propria diversità un punto di forza, imparando a convivere con le ferite ed utilizzandole come motore dell’agire. Da quanto detto, emerge che il disagio nasce dall’impossibilità di reimmaginare creativamente se stessi e la propria storia. Attraverso una “rilettura” che il terapeuta fa insieme e grazie al paziente, della sua storia personale, quella ferita diviene feritoia che apre alla comprensione della propria individualità. Perché la ferita diventi un centro di creatività, deve essere accolta e curata con amore, solo allora il miracolo si compie e la ferita irradia la sua luce che consente di vedere l’intima essenza del mondo. La personalità creativa ha dunque questa capacità peculiare di trasformare le cose e la vita stessa, grazie ad una ricchezza interiore che deriva dallo sviluppo armonioso dei propri complessi. Jung chiama Sé questo armonico sviluppo della personalità e parla di Cristo come colui che rappresenta il Sé, la totalità psichica, il corrispettivo psichico dell’immagine di Dio. A lungo nella sua vita Jung si è occupato di psicologia della religione, ma il suo oggetto d’indagine non è stata la realtà religiosa, ma quella umana, all’interno della quale si sviluppa una fede religiosa. L’esperienza interna della divinità è chiamata da Jung il numinoso (dal latino, numen o numina, “il dio che presiede”), un archetipo della totalità, che si può manifestare in sogni, miti e fantasie. Questo autore traccia un parallelismo tra il simbolismo della messa e il processo di individuazione, considerato come l’equivalente religioso della “salvezza”. Tale salvezza passa attraverso una esperienza spirituale di morte e rinascita, che prelude alla trasformazione in un tutto (il Sé) attraverso il sacrificio. L’immagine di Cristo, dice sempre Jung, è unilaterale: un redentore tutto bontà e luce, che riflette un Padre perfettamente buono. Ciò apre un problema teologico: come può un Dio onnipotente e buono permettere l’esistenza del male? Se Dio non ha creato il Diavolo, ma è lui stesso che si è creato, ciò implica che Dio non è onnipotente. Il male deve essere allora stato creato da una scelta dell’uomo, dal suo Peccato Originale che il sacrificio di Cristo aveva il significato di redimere. Tale irriducibile divisione tra bene e male, significa per il cristianesimo l’impossibilità di riunire gli opposti esistenti in natura. La maggior parte delle religioni ha il problema degli opposti, bene e male, maschio e femmina, yin e yang eccetera. Un’antica setta di eretici cristiani, gli Gnostici, aveva cercato di completare la Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con un quarto principio, la misteriosa dimensione femminile della natura. Nel 1950, il Papa proclamò come articolo di fede l’Assunzione della Vergine Maria, la sua letterale “elevazione” in cielo e riunificazione con il Figlio come Sposa divina. Jung vedeva questo come un riconoscimento inconscio della Chiesa di un “quarto principio”. Lo definì “il più importante evento della Riforma”. In termini psicologici ciò significa che la presenza del male è ineliminabile, ciò che possiamo fare, con un continuo lavoro su noi stessi è venire a patti con esso, entrare in relazione con ciò che Jung chiamava Ombra, il lato oscuro e inaccessibile della personalità. Con una espressione un po’ paradossale, si può dire che il male va amato, nel senso che dobbiamo prenderci cura della nostra parte “inferiore”, poiché la creatività risiede anche lì, nell’Ombra. Di parere diverso era Freud che considerava la religione come una illusione, volta a compensare il senso di impotenza infantile, tuttavia, diceva, essa non è un delirio perché non si pone necessariamente in contraddizione con la realtà. Questo, naturalmente, era il pensiero del “padre” della psicoanalisi, un uomo per il quale la saggezza della vita consisteva nel capire quando una certa situazione poteva essere cambiata, e quando, invece, ci si doveva adattare. L’anelito positivistico e meccanicistico di una tale concezione del mondo, ha fatto purtroppo molti proseliti nel mondo accademico, creando paradossali correnti come quella del “freudismo”: un atteggiamento di fanatismo verso il “credo” freudiano considerato come una fede, un dogma da difendere a tutti i costi. Il fatto è che quando il padre della psicoanalisi diceva e scriveva le sue idee, pensava di parlare ad un pubblico colto e intelligente, purtroppo non sempre era così. Freud ha sempre sostenuto che quelle erano le sue idee e che non era affatto necessario nè auspicabile che altri adottassero esattamente la sua tecnica ed i suoi principi. Ogni professionista diceva, deve sapere tutto ciò che c’è da sapere, poi però deve “dimenticare” questo sapere per trovare il suo personale stile, senza il quale il suo agire sarebbe una vuota ripetizione di qualcosa che non gli appartiene. Dello stesso avviso era Jung quando parlava di “equazione personale” e di come lo psicoanalista dovesse lavorare utilizzando la sua personalità e i suoi sentimenti che si sprigionano dal campo relazionale del rapporto con il paziente. Insomma, possiamo concludere dicendo che, perché il miracolo della trasformazione sia possibile e la ferita, spina dolente confitta nell’anima, possa, da tenebra ed oscurità, schiarirsi ed irradiare luce, è necessario un atto d’amore ed in ultima analisi, di dedizione, cioè di fede. |
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