Una psicologia del danaro, nell’ambito del setting analitico, implica una analisi del simbolismo connesso al “dare”, sia dal punto di vista dell’analista sia, soprattutto, del paziente. E’ quest’ultimo, infatti, che dà “danaro-materia” all’analista, ricevendo in cambio cose immateriali, altrettanto preziose, anzi, a volte senza prezzo. Un insight terapeutico ricevuto nel momento giusto, non ha valore, può cambiare il modo di vedere se stessi e gli altri, dunque anche il modo di considerare il “dare”, cioè la propria generosità o, semplicemente, il rapporto che si ha con i soldi.
Dare, si sa, è un gesto d’amore, dunque anche di ringraziamento o di gratitudine. Ma può, nondimeno, essere visto come un obbligo e un sacrificio. Perciò si dà veramente, cioè fino in fondo, ovvero con trasporto e dedizione, nella condizione di reciproco coinvolgimento affettivo, chiamata transfert. Sotto la particolare luce della proiezione, il dare acquista un significato supplementare: si dà una parte di se stessi. In altre parole, si dà per influenzare l’altro, per farlo proprio o, di conseguenza, per portarlo dalla propria parte. In ultima analisi, per introiettarlo divenendo come lui: un modello. E, nello stesso tempo, lo si nutre alla maniera genitoriale. Ci si scambia, direi, questa genitorialità. Il paziente chiede accudimento e offre, paradossalmente, di che vivere all’analista, cioè lo ripaga con danaro, “materia”, soldi, potere d’acquisto su beni e cibo che si trasformerà in sangue e pensiero. Riceve in cambio un altro potere, quello su se stesso, acquistando la capacità di essere (più) padrone di sè.
Contemporaneamente, vi è anche un altro aspetto, il danaro ricorda ai membri della coppia analitica che è presente un patto tra loro: io paziente ti do qualcosa, in cambio di un aiuto. La definizione ed il tipo di aiuto che riceve, non è sempre chiaro al paziente, anche perché può variare nel corso dell’avventura analitica.
Ciò che dovrebbe invece restare invariato è l’onorario. A volte, però, la modalità che il paziente ha di consegnare i soldi-nutrimento all’analista, può cambiare in funzione di un messaggio allusivo da veicolare a quest’ultimo. Ritardi, dimenticanze, o anche anticipazioni, possono essere utilizzate per dire all’altro ciò che non si riesce ancora a verbalizzare. Così può capitare che ad una “mancanza” dell’analista, faccia seguito una “dimenticanza” e dunque un ritardo nel pagamento, se questo avviene ad esempio a fine mese.
Un tale agito, poiché implicitamente e tacitamente si riferisce all’operato dell’analista, svela il vissuto che il paziente ha della relazione con questi e in generale con l’analisi. L’importante è capire che questa rappresenta una ghiotta occasione per il terapeuta, il quale si trova ad essere catapultato nel mondo interiore dell’altro, reso visibile ed attualizzato nel qui ed ora della terapia. Ogni fantasia del paziente connessa al pagamento, può essere presa in considerazione poiché ripercorre e riattualizza antichi scenari legati al dare e allo scambio di “doni”. E lo scambio riguarda per definizione contenuti emotivi, fantasie, aspettative, fantasmi che proprio grazie al transfert si rendono palpabili in analisi. Il denaro attiva lo scambio, richiede e suscita investimenti energetici e allusivi favorendo la proiezione. Siamo di certo, nel dominio del transfert.
Ma perché, ancora, il danaro avrebbe una tale proprietà catalizzatrice? Esso crea e trasferisce sull’altro molteplici investimenti fantasmatici, in virtù del fatto che è collegato ad un concetto, quello di “valore”, che è un concetto di natura psicologica: il paziente investe l’analista di un valore presunto e nel riconoscergli questo, gli offre il suo denaro.
Dunque, la ricompensa implica un valore implicito. E là dove c’è un presunto valoroso, siamo già, ovviamente, nel campo della proiezione. A rendere più complessa la situazione, si aggiunge il fatto che la modalità e la cadenza del pagamento può accentuare o ritardare l’emergere del transfert, nel senso che, se il paziente paga seduta per seduta, questo fatto gli ricorda ogni volta (e di volta in volta) che lui “dà”. Cosa diversa è se paga con cadenza mensile, saldando il suo debito alla fine di un periodo di tempo. Nel primo caso, il paziente dà poco per volta, dunque non accumula ed eroga costantemente materia-nutrimento. Ne deriva un transfert di tipo progressivo, come può esserlo il concetto di crescita o di sviluppo. Mentre nell’altro caso, ne viene favorito uno di tipo “esplosivo” o se si preferisce un parallelo con la fisica, di tipo “quantico” cioè a salti, non continuo, mi verrebbe da dire “pulsante”.
Se consideriamo la riuscita della terapia, dal particolare punto di vista della psicologia del danaro, possiamo avanzare l’ipotesi che una terapia che funziona debba creare le condizioni psicologiche affinché il paziente si senta padrone del proprio denaro, o meglio, artefice e autore. Tale condizione permette al paziente di “sentire” e viversi il “dare” come proprio, perché legato alla propria persona. Questo è per lui, ma in generale per la coppia analitica, il dare più efficace e redditizio, poiché implica un totale coinvolgimento del paziente nel “suo” personale processo terapeutico.
Diverso è il caso in cui il paziente non paga con i propri soldi, poiché ad esempio, ancora non lavora e non guadagna, dunque qualcun altro paga al suo posto. Probabilmente le implicazioni simboliche connesse al dare, in questo caso, sono meno potenti e il pagamento si svuota alquanto della componente transferale, la quale tuttavia, ha altri canali per svilupparsi ed emergere.
Va aggiunto che alcuni analisti hanno un senso di profondo rispetto per quei pazienti che pagano le sedute con i propri soldi. Quando invece c’è alle spalle un genitore che eroga la preziosa carta, è come se la banconota fosse una sorta di “copia” (seppur ben fatta) di quella autentica. Dunque, in tal caso, si avrà una “copia” della terapia e agli occhi del terapeuta, una “copia” del paziente. Per chiarire meglio questo concetto, tirerei in ballo il termine “meritare”. Chi paga con i soldi che si è guadagnato per proprio conto, è come se avesse acquisito un merito che gli consente di richiedere un aiuto “in versione originale”, non semplicemente una copia. Di contro, chi quei soldi non li ha sudati, avrà un aiuto meno originale e più “fotocopia-imitazione”. Questo meccanismo, forse in larga parte inconscio, scatta in quegli analisti che considerano la terapia alla stregua di una eroica traversata per mare, alla scoperta di un Nuovo Continente...
Tali riflessioni, inoltre, fanno pensare che lo stesso onorario, non abbia l’eguale peso o valore, stabilito oggettivamente, ma sia piuttosto vissuto al pari di una realtà psichica, sia dal paziente che dall’analista. E’ lecito pertanto, a mio avviso, coniare l’espressione “psicologia del danaro” per introdurre appunto la presenza nel setting, di una realtà fittizia, puramente psicologica, che a volte sovrasta e plasma la realtà oggettiva, dandole un sapore personale ed individuale, laddove ci si aspetterebbe una standardizzazione e omologazione del comportamento consono, con relativo vissuto.
Se ci caliamo in una logica ermeneutica, ogni agito all’interno del setting diventa suscettibile di interpretazione. Consideriamo ad esempio la seguente fantasia di un paziente, riportata nel suo diario:
“Continuavo ad osservare il mio analista, immerso com’era nei suoi impenetrabili pensieri. D’un tratto mi guardò come se stesse per dirmi qualcosa, poi si chinò per raccogliere una rivista momentaneamente adagiata sul tappeto, tra la sua poltrona e il tavolino ovale posto tra noi. Fu allora che dal taschino della sua camicia a quadri, una pioggia di monetine dorate scivolarono giù una sull’altra, riproducendo il tintinnio di un campanello che sembrava annunciare un evento importante. Anche se quella volta non disse una parola, ebbi la sensazione che fosse lui a chiedere aiuto a me.”
Una tale fantasia, che potrebbe essere considerata alla stessa stregua di un sogno, mostra come un evento apparentemente ordinario e privo di valore, possa acquisire una significatività ricca di rimandi e allusioni, agli occhi di chi lo osserva immerso in un particolare contesto, quello del setting analitico, luogo in cui la banalità e l’assurdità del dolore, acquistano un senso che nasce dal rapporto esistente tra i protagonisti. Nel caso specifico, la fantasia in questione, potrebbe sottendere l’esigenza del paziente di rapportarsi ad un analista-paziente (un ferencziano scambio di ruoli) che “vuoti il sacco” al suo cospetto. Mostrandosi dunque complice di un paziente che anela segretamente a salvarlo. In questa scena, il danaro diventa un tramite simbolico che veicola contenuti profondi, inaspettatamente emersi.
Per la psicoanalisi, spiega Galimberti, il denaro è inconsciamente identificato con gli escrementi o, meglio ancora, con il bastone fecale che, per la sua somiglianza col pene, spiegherebbe l’angoscia di castrazione che provoca ogni timore di perdita di denaro.
Sicuramente, questo è un aspetto interessante, messo a nudo dall’interpretazione psicoanalitica. Tuttavia non è il solo. A mio avviso, il denaro rappresenta anche una forma di energia, sia fisica cioè materiale, che psichica. Fisica, perché si traduce in capacità di compiere azioni significative per la persona, sul piano della realtà, come l’acquisto di beni; psichica perché è carico di una serie di implicazioni tipiche dell’uomo psicologizzato, sensibile al richiamo di una dimensione simbolica. Ora, dove c’è energia c’è Eros. Il denaro è Eros nella misura in cui “nutre”, ma anche disorienta, svia, conduce in un altrove imprevedibile, in una parola: fa sognare. Ecco perché se non c’è Eros, una qualsiasi terapia psicologica non può viaggiare a regime, poiché manca di ispirazione, diventa tecnica e dunque prevedibile. Manca di magia.
Per essere “Eros tra morenti” un percorso analitico implica dunque il danaro come equivalente di una morte simbolica inconsciamente vissuta dal paziente, che si “dissangua” di “materia”, facendone dono ad un altro, per esserne “ucciso”. Ti pago per “uccidermi”, ti pago per farmi ammalare di una malattia che solo tu puoi curare. Questo, il messaggio inconscio del paziente all’analista. Questo, l’analista “eroico” fa. Certo, lo fa con arte, lo fa vincendo e trascendendo la morte, cioè permettendo rinascite. Fa fare nuovi sogni.
Una tale rinascita psicologica, sprigiona nel paziente il senso di gratitudine e lo svincola dalla vecchia necessità nevrotica di “dare”, spalancando in lui un nuovo universo all’interno del quale la sua energia si lega in misura minore ad oggetti esterni (come i soldi, l’analista e l’analisi) privilegiando la scelta di nuovi oggetti interni: l’interiorità, viene ora vista sotto una prospettiva emotiva nuova, perché condivisa con chi, quella visione l’ha attivata, divenendo preziosa ed irradiando una luce propria. In altre parole, la rinascita psicologica induce il paziente ad uno spostamento di valore dall’esterno all’interno. Ciò che prima lo attraeva dal di fuori, perde la sua carica energetica (o erotica) per lasciare spazio ad un nuovo oggetto emergente dall’interno, che polarizza su di sé una seducente attrattiva.
In questo nuovo universo di significati emergenti, l’aspetto del “dare” subisce, insieme alla personalità stessa del paziente, una ristrutturazione essenziale. Cambia perciò anche l’affetto connesso al gesto del dare, o per dirla con un termine più moderno, il “godimento” legato all’offrire se stessi all’altro. Il dare, che prima della ristrutturazione produceva al paziente una emozione ed una aspettativa connessa all’attesa (ti pago, dunque, ti prego guariscimi), adesso, dopo la rinascita, acquista una valenza diversa poiché vi si associa appunto il “godimento” (o goduria che dir si voglia). Quindi, da una iniziale aspettativa (di essere salvato) o, meglio, da una attesa (salvami), si passa ad una azione propositiva: io godo quando do, godo nel dare agli altri. E’ questo vissuto oblativo, direi, la prova di una riuscita ristrutturazione, anche per il semplice ed essenziale fatto, che la persona ha acquisito più responsabilità riguardo al proprio benessere: godo quando do, quando mi do, quando do tutto me stesso.
Godimento e dare si legano insieme, implicando la presenza dell’altro divenuto ora necessario. Ne consegue che il “dare” precedente alla rinascita è classificabile come “narcisistico”, poiché risulta ripiegato su se stesso, come, del resto, la stessa iniziale aspettativa di guarigione, fondata su di una attesa di tipo passivo (ti prego, guariscimi!). E’ come se, in tale condizione di partenza, il paziente attendesse di essere notato dal terapeuta, come se ciò gli fosse dovuto, in virtù del suo “dare” soldi a quest’ultimo.
Il terapeuta, naturalmente, entra nella logica del gioco, ma solo per romperla e capovolgerla, proponendo al paziente una nuova grammatica del dare. Una tale rivoluzionale proposta, si basa necessariamente sulle idiosincrasie del terapeuta, sul suo stile personale, e soprattutto relazionale, implicando un coinvolgimento profondo. Ecco perché, per dipingere sinteticamente l’intera complessa situazione, si preferisce parlare di psicoartista, piuttosto che di psicoanalista. E non vi è dubbio che l’artista è uno che “dà”, laddove lo psicoanalista è uno che intravede qualcosa di nascosto, svelandolo. Analizzare è un’attività mentale, di pensiero. Dare è un gesto d’amore. Non a caso è l’amore che cura.
E’ per questo che una psicoterapia che non tenga conto di una psicologia del danaro, rischia di lasciarsi sfuggire un’occasione di comprensione verso quell’oscuro e affascinante universo di significati, portato in analisi e offerto dal paziente, ignaro di ciò che profondamente muove le sue azioni e le sue emozioni. E, naturalmente, ciò vale anche per l’analista, il quale mette in gioco i suoi sentimenti, partecipa, sente, dà, dunque trasferisce e permette trasferimenti, in virtù del suo essere artista.
L’effetto che produce nel paziente una tale modalità psicoartistica di condurre e creare il percorso terapeutico è soprattutto di tipo affettivo, cioè transferale. Il danaro, diventa in questo contesto, con i suoi rimandi simbolici, un catalizzatore emotivo, un acceleratore di emozioni. E’ sotto l’influenza del transfert che il paziente fa una scoperta essenziale: il dare, lo fa star bene. Dare, diventa un parente stretto dell’esternare, del produrre, del creare. Dare è offrire, mostrarsi e dunque conoscersi. Ma di nuovo, ora c’è che il paziente sente un benessere profondo, scaturito dal dare. Ciò ne cambia il vissuto connesso all’atteggiamento di propensione verso l’altro. E, inutile sottolinearlo, il transfert è la cornice ed il contenitore di un tale cambiamento, che come vuole la tradizione psicologica, necessita di un alter ego.
Considerare il transfert come punto privilegiato dal quale ciò che osservano il paziente e l’analista, appare dotato di un nuovo significato è cosa pacifica, ma assumere il danaro come “orizzonte degli eventi” (espressione in voga nella fisica quantistica), significa considerarlo al pari del transfert, un elemento sine qua non, necessario, della trasformazione. Perché? Intanto, perché le cose importanti nella vita “costano”. E il costo (o fatica) in termini emotivi, è rappresentato dall’abbandono da parte del paziente, della vecchia concezione filosofica legata al dare e all’attendere un dare da parte dell’altro. Il paziente cambia, dunque, la concezione di se stesso, legandola inconsciamente al clima emotivo imperante durante le sedute. Anche per questo, denaro e transfert sono, per così dire, come due mondi a confronto, uno materiale, l’altro psicologico-emotivo. Ma a ben vedere, essi sono solo le due facce della stessa medaglia: l’uomo, considerato sia nel ruolo di paziente, che in quello di analista. A questo punto, la sua vena artistica permette allo psicoartista di andare “oltre” la terapia psicologica, cioè oltre i ruoli previsti, catapultando il setting in un campo nuovo, nel quale una mentalità di frontiera consente ai due eroi, visioni “altre”.
E’ adesso che il simbolismo del dare si colora di emozioni condivise, allorché paziente ed analista si muovono all’unisono, sentono e desiderano armonicamente, sono guidati da un inconscio temerario ed irrequieto, che rende la psiche di ognuno dialogante con quella dell’altro, pronta a condividerne gli obiettivi eroici.
Laddove il terapeuta possiede tra le sue risorse un tratto narcisistico, gli viene naturale incanalare il “dare” del paziente, verso la via dell’espansione e dell’eccellenza, connotando di grandiosità quella danza, sapientemente scenografata, che è diventata la terapia. Se l’ispirazione resta viva e nutre la coppia, si ha un’accelerazione verso ogni traguardo terapeutico, compreso quello tanto agognato del ritiro delle reciproche proiezioni. Alla fine, sia il paziente che l’analista, dovranno progressivamente rinunciare ad essere “nutriti” da quel particolare rapporto, adempiendo e onorando l’originale contratto terapeutico.
Ed è quando lo sguardo del paziente riesce a cogliere la dimensione profondamente ed essenzialmente umana di chi gli sta di fronte, che l’analisi termina.
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