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Articolo pubblicato sul Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura
(nr. 10, Aprile 2010)


Morire: sotto a chi tocca!


(Estratto)

Riusciranno le nuove lusinghevoli promesse dell'era attuale, con le loro multiple possibilità di "connessione" al villaggio globale, a farci affrontare un po' più serenamente, la famosa paura della morte? Si tratta − come da sempre ci dicono i filosofi − proprio di questo? Se è vero che l'inesorabile progresso umano, da un punto di vista squisitamente psicologico, si dovrà presumibilmente tradurre in una accresciuta capacità di affrontare la morte (vista come vertice dei problemi essenziali), allora, a partire da questa odierna e sfrenata esigenza di globalizzazione tecnologica, dovrem(m)o dedurre che il futuro (come evoluzione della psiche) ci mostrerà la possibilità, forse, di considerare in modo nuovo (e rivoluzionario per noi oggi) la morte: come oggetto di gioco e dunque di partecipazione(?) Dunque, morte condivisa(?) Dunque, giochi di morte(?) E, sarebbe questo, un modo estremo, di partecipazione? Sembra, allora, che morire "insieme", potrebbe costituire un efficace deterrente alla nota paura della solitudine, parente stretta della più famosa paura della morte. L'assunto di base secondo cui la morte si vive in solitudine (cioè nella morte siamo soli), potrebbe vacillare con l'avanzare sfrenato della tecnologia, che non sembra conoscere limiti. In definitiva, morire sarebbe, allora, al tempo stesso, un problema e la sua soluzione. In altre parole, due sono le domande fondamentali: come bisogna vivere? E, come si deve morire? Ovvero, com'è una vita degna? Com'è una morte "piena", desiderabile, ambita? Perciò, qual è il modo migliore di morire? Da quanto detto, dobbiamo dedurre che morire è quasi sempre una sorta di suicidio. Il che potrebbe assimilare la morte ad un gioco e quindi ad una scelta. E' lecito allora ipotizzare che si arrivi a concepire un gioco di gruppo, il cui fine sarebbe "morire", che, necessariamente sottenda una ambita voglia di partecipazione?


Articolo integrale

Giocare a “morire”

Chi muore? Chi non è “presente”, chi non partecipa. Chi non gode del gioco della vita. Morire equivale a un non appartenere a qualcosa, a un non “far parte di”. E’ l’uscire fuori da una categoria che accomuna gli esseri, appunto agli esseri “viventi”, facendoli partecipare a qualcosa. Situazione opposta vive ad esempio il depresso, che si sente escluso. L’idea di condivisione lega gli esseri viventi ad un destino comune, che da un punto di vista psicologico, consiste nella ricerca del senso (o anche del significato) della vita. Chi è vivo, dunque, cerca il senso. Di contro, chi è “psicologicamente” morto, cioè “assente”, escluso, ha smarrito il senso.
Nel mondo naturale, popolato dagli animali, il senso è semplice, diciamo pure “dato”. Nel sofisticato mondo psicologico, che poi è il mondo squisitamente umano, quel senso è complesso e ama nascondersi. Quel senso, oltre che giocare a nascondino, è mutevole, si evolve e sfugge a ogni definizione univoca. Ora, affinché una morte accada, si devono realizzare almeno due condizioni: assenza di contenitore (struttura) e assenza di contenuto. Il contenitore è, diciamo così, dato a priori: è il corpo, con la sua biologia. Il contenuto è, in un certo senso, l’anima. Quella del corpo è una morte naturale, accade. La morte dell’anima è squisitamente psicologica, cioè “costruita” dalla psiche.
Ma perché la psiche dovrebbe costruire un evento, che la vede soccombere a se stessa?
Diciamo che non è l’intera psiche che costruisce quell’evento, ma solo una parte di essa, quella parte che lo ritiene necessario ad uno sviluppo evolutivo superiore. E quella parte è l’inconscio. Naturalmente l’inconscio non è un luogo della mente, ma è l’espressione di forze che abitano negli strati più profondi della psiche. E questo “magma” incandescente vuole abitare luoghi altri. Perciò “decide” ad insaputa dell’Io cosciente, di fuoriuscire dai luoghi ristretti in cui è stato confinato, per inondare le terre dell’Io. A questo punto l’Io è spodestato e per questo, attiva in sé nuove ed insospettate forze. Dallo scontro tra questi due titani, può nascere un compromesso creativo che conduce alla ristrutturazione globale della personalità. E’ quella che viene chiamata rinascita psicologica: un esito felice di quel misterioso percorso iniziatico che, a volte, è la psicoterapia.



La morte nel setting

Nel setting si entra per sperimentare e partecipare ad una sorta di battaglia vitale, presupposto della quale è la convinzione da parte dei duellanti (l’Io e l’inconscio) che l’uno vincerà sull’altro. Ovviamente, ma questo lo si saprà solo dopo, nessuno dei due soccombe definitivamente e come in un conflitto di natura politica, si arriva spesso ad un compromesso. Se il compromesso è creativo, nessuno perde, ma anzi, entrambi guadagnano qualcosa (vincono insieme). Ciò significa che la rinascita è già in atto.
Questa, vista dall’alto e molto da lontano è la teoria. Come al solito, è importante averne una, se si vuole raccontare un fatto. Ma il fatto che qui mi accingo a raccontare, è un fatto pratico. E di pratico, in psicoterapia, vi sono le sedute, anzi, “la” seduta. Eccola.
La paziente si presenta all’appuntamento in ritardo, mantenendo un portamento, che infonde calma. Quando io vedo la calma, aggiungo spesso nella mia mente, a seconda dei casi, il perturbante aggettivo di “apparente”. Calma apparente. La paziente parla senza scomporsi, di drammatici fatti recenti, accaduti nella sua vita. Il suo discorso diventa via via sempre più drammatico, ma la postura, la mimica, la prossemica, e tutto il linguaggio non verbale che accompagna la comunicazione, sembra scollato dal contenuto: il dramma non è vissuto, appare scisso, confinato così lontano, da essere privo di carica emotiva. Le parole sono svuotate di pathos, l’emotività è coartata. Eppure la paziente è lì. E’ lì con me. E questo vuol dire semplicemente che io sono parte della realtà che lei, in quel momento, sta costruendo intorno a sè. Dunque, se io ne faccio parte, vuol dire che posso intervenire. Qualunque cosa faccia, interverrei comunque, visto che per via degli assiomi della comunicazione, sarebbe impossibile non comunicare. Senza dire nulla alla paziente, ma con un semplice gesto del dito indice teso (come a voler dire: “un minuto”) mi alzo e mi allontano dalla stanza. Sto via alcuni minuti. Il mio intento è quello di creare l’aspettativa che stia per accadere qualcosa, ma una totale confusione su cosa, esattamente. Quando ritorno, la paziente mi guarda con occhi interrogativi e compare per la prima volta un barlume di emozione in un angolo della sua bocca, che si inarca leggermente verso il basso, disegnando un arco appena accennato. Non mi sono ancora seduto e lei mi segue con lo sguardo e guarda le mie mani. Ho portato infatti un vassoio.
Per la paziente quel vassoio rappresenta una promessa di assoluto, un sogno pronto a materializzarsi: di lì a poco potrà partecipare ad un banchetto. Lo farà anche attraverso la suggestione immaginativa della trance che, in qualità di realtà parallela è sperimentata dall’Io come una piccola morte. Ma il suo Io si farà da parte?
Ora, la storia di questa paziente è molto variegata, ma vorrei di proposito evitare di raccontarla, per ingenerare nel lettore una sorta di suspance; la stessa aspettativa che forse ha la paziente nei miei riguardi e io in lei. Ecco, qui subentra un approccio ecologico alla terapia: considerare cioè l’importanza e l’influenza del “luogo”, ovvero, del “gesto fisico” proposto. La valenza di tale gesto è psicologica, immaginaria, transferale appunto. Ma qui, il transfert è legato al luogo, alle movenze, ai movimenti reali. Si tratta appunto di eco-transfert. Ecotransfert è quella migrazione di sentimento che da un lontano passato si lega al presente, attraverso ciò che il paziente “vede” in quel momento. Il suo è un assistere a qualcosa, un suo entrare in una scena, un calcare quel palcoscenico. Ecotransfert è un transfert grazie al quale ciò che si ripete non è solo una carica emotiva, o un contenuto affettivo appartenente al passato e riguardante originariamente, un altro significativo; esso è anche questo, con in più l’opportunità, questa volta, di essere coprotagonisti di una scena reale che allude fortemente a qualcosa di emblematico per il paziente. Se c’è allusione, c’è transfert, ma ora il transfert è oggettivato, reso visibile da una scena della quale, paziente e terapeuta sono coprotagonisti. Non alla pari, ma come se fossero alla pari.
Ora torniamo al nostro vassoio. Su di esso, accuratamente disposti, ci sono due tazzine da tè vuote, una teiera, un piattino con dei biscotti, due cucchiaini. La paziente, una donna sulla cinquantina, è abbastanza smaliziata e “navigata” perché quella scena possa rappresentare una efficace holding. Infatti si tratta di altro. E’ in gioco, nel mio intento, una ristrutturazione cognitiva che riguarda il piacere di affrontare -insieme- discorsi problematici e relazionali, laddove invece, un antico condizionamento negativo fa evitare alla paziente qualsiasi discorso introspettivo o di approfondimento dei legami, percepiti come pericolosi e inaffidabili. Cercheremo di fare questo, insieme, sfruttando anche l’evidente tratto orale (contornato da narcisismo ed esibizionismo) che caratterizza questa paziente, portata ad accogliere con entusiasmo qualsiasi mia iniziativa o variante del setting classico. La difficoltà so che verrà dopo, quando dall’iniziale entusiasmo accogliente si tratterà di virare verso la più dura e destabilizzante riflessione introspettiva.
Ritorniamo ora alla teoria.
Psicoecologia significa dunque approccio sperimentale e dunque partecipativo, condiviso, alla realtà psichica. E questo vuol dire che tale realtà diventa oggetto di sperimentazione. Sperimentare la realtà psichica fatta di visioni del mondo, interpretazioni personali e vissuti, significa inscenare l’emozione associata a quei vissuti, grazie al transfert che accade nel qui e ora della relazione. Ma che cos’è, propriamente, inscenare? Si inscena quando si crea qualcosa di significativo, che l’altro vorrebbe evitare perché sentito come pericoloso, alieno. Il più delle volte si inscena Eros. Evitarlo è un equivalente del morire.
E qui torniamo al vassoio e al tè. Dall’iniziale accettazione, la paziente, ignara di ciò che sta per succedere, inizia a manifestare lievi segni di ansia. Intuisce che quel vassoio non è lì solo come segno di ospitalità, ma ha un’altra funzione ancora indefinita. In lei l’ansia cresce, ma il suo vorticoso meccanismo viene interrotto dalle mie parole: “osservi attentamente queste tazzine, sono comodamente adagiate sul loro vassoio, in attesa di essere colmate di tutta la loro sostanza… attendono, sanno attendere, perché attendono da sempre. Per loro sta arrivando un momento tanto atteso, il momento in cui la teiera verserà in loro qualcosa di prezioso”. Queste parole suggeriscono alla paziente una identificazione tra lei e gli oggetti che ha di fronte.
Ecco che entra in scena un’induzione di rilassamento personalizzata, che ha lo scopo di parlare alla mente inconscia, in modo allusivo e metaforico, con il fine di favorire una ristrutturazione emotiva dei vissuti di smembramento, derealizzazione e morte della paziente, conseguenti al voler capire a fondo, introspettivamente, qualcosa di sè. Ristrutturare, significa ridefinire un meccanismo sotteso da un ricordo, un vissuto, un’esperienza, rivivendola insieme. Insieme si affronta la paura. La paura è sempre quella della disgregazione, dell’annientamento, dello smembramento. E dunque della morte. All’opposto della morte vi è la “partecipazione”. Possiamo vedere la partecipazione come una aggregazione di forze psichiche. Qui, il modello freudiano di eros e thanatos funziona bene.
Allora, diciamo che il vassoio che ho portato, rappresenta un banchetto al quale partecipare in vista di una morte simbolica, costruita ad arte nella fantasia guidata, che consentirà poi la ristrutturazione, sempre attraverso l’induzione ipnotica e la successiva verbalizzazione del vissuto, con relativa rielaborazione.
Esiste dunque, come nel caso di questa fantasia guidata, anche una partecipazione (immaginale) alla morte, che però è foriera di vita. Di questo, si tratta in analisi. Ma si tratta di una scelta. Dal mio personale punto di vista, questa scelta è un po’ indotta dal terapeuta, il quale si trova ad essere un po’ come un maestro di sci, che di fronte alla pista da percorrere, dice all’allievo: “ti devi buttare!”. Su una tale libertà di scelta ci sarebbe molto da discutere; sta di fatto che non sempre è possibile scegliere: a volte, ad esempio un infarto ci coglie di sorpresa e volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti con la morte, inconsciamente vissuta, durante un intervento chirurgico “a cuore aperto”. Di questo genere di morte mi accingo ora a parlare.



Sogni di morte sotto i “ferri”

Gli interventi di cardiochirurgia costituiscono ormai una realtà in tutta l’Italia. Il paziente che viene sottoposto ad un intervento “a cuore aperto” va incontro ad una particolare situazione psicologica, sperimentando una totale incertezza riguardo alla sua sopravvivenza. A seguito di particolari farmaci usati nell’anestesia, i sogni che produce il paziente in concomitanza dell’intervento e durante il decorso post-operatorio, spesso riguardano la morte come tema dominante. Il mio lavoro di cardiopsicologo presso il Dipartimento di cardiochirurgia del S. Anna Hospital di Catanzaro, mi porta a lavorare proprio con questi pazienti e con i loro parenti.
Mi è rimasto molto impresso il caso di una giovane donna, che in terapia intensiva, (quindi dopo l’intervento) alla vista del medico che l’aveva operata, reagiva strappandosi ogni tubo collegato al suo corpo, con notevole perdita di sangue, agitandosi in preda ad un incomprensibile attacco di panico. Data la sua condizione, (ancora intubata) non era stato possibile parlare direttamente con lei per diversi giorni. Al primo colloquio con la paziente, in grado ormai di parlare, non era saltato fuori nulla e lei stessa sembrava schiva ed evasiva riguardo alla faccenda degli attacchi di panico. Così, nel tentativo di capirne di più, ho svolto un colloquio con la figlia, e ho scoperto che a lei la madre aveva raccontato di un sogno in cui il chirurgo uccideva entrambi brutalmente.
Cosa era successo? Poiché i farmaci utilizzati per questi interventi sono a lento assorbimento, la paziente, in un primo momento ancora intontita, non distinguendo la realtà dal sogno, venutasi a trovare faccia a faccia con la figlia, giunta a trovarla in terapia intensiva, aveva avuto una paradossale reazione di sgomento e di rifiuto dicendole: “Tu non sei chi dici di essere, tu non puoi essere mia figlia! Lei è morta! E’ stata uccisa!”.
Questo è stato il racconto della figlia durante il nostro colloquio. Con il tempo la situazione è rientrata e la madre ha iniziato a distinguere ciò che apparteneva al sogno e ciò che era reale. Qualche giorno dopo, durante un colloquio con me in reparto, quando ormai si era quasi del tutto rimessa, la paziente mi ha confessato, non senza vergogna, la causa di quelle sue spropositate reazioni d’allarme alla vista del chirurgo. Il forte senso di vergogna era naturalmente dovuto alla profonda convinzione che le cose fossero andate in quel modo assurdo, che il sogno le aveva fatto credere. Solo alcuni giorni dopo, a seguito di ripetuti colloqui, siamo riusciti finalmente a riderci sopra.
Per chi ha un approccio psicoanalitico come me, i sogni sono sempre importanti. Io li chiedo a tutti i pazienti e ho scoperto che nel mondo onirico del paziente, che ha subito un intervento di cardiochirurgia, c’è un tema ricorrente: appunto quello di essere assassinati. Molti soggetti, sognano di essere uccisi da un medico. E la cosa non finisce lì, spesso, come nel caso della nostra paziente, essi sognano che il chirurgo stermina l’intera famiglia. Ma, cosa li spinge a sogni del genere?
Il fatto è che durante l’anestesia, anche se il paziente è sedato più o meno profondamente, egli percepisce a livello inconscio (la cosiddetta coscienza intraoperatoria) qualcosa di ciò che gli accade. Ed in effetti, quello che gli accade a livello del corpo, è terribile: la sua carne viene penetrata dal bisturi, la gabbia toracica viene divelta tramite una sega. Non a caso si dice “intervento a cuore aperto”.
Bene, tutto ciò viene registrato in qualche modo dal cervello (soprattutto dall’emisfero destro che è olistico, sintetico, emotivo e irrazionale) ed elaborato sotto forma di sogni. Poi, i sogni possono essere ricordati, oppure no. Se essi raggiungono il livello di coscienza, nasce un ricordo. Nel caso di alcuni pazienti, questo ricordo è molto vivido. C’è poi da considerare un fatto essenziale: che al risveglio il soggetto ancora sotto effetto di farmaci sedativi ipnotici con effetti onirici (propofol/diprivan) non distingue criticamente la realtà dalla “fantasia” e dal sogno, perciò tende a confondere i due livelli. Una conseguenza di tutta questa complessa situazione, può essere la convinzione di aver effettivamente subito un’aggressione da parte del medico. Man mano, poi, che l’effetto dei farmaci svanisce, la persona si rimpadronisce delle facoltà cognitive e critiche e si rende progressivamente conto che quella drammatica esperienza è stata solo un sogno. Però, proprio perché vi aveva creduto ciecamente, adesso prova un profondo senso di vergogna per l’allucinazione avuta. Il risultato è che non ne parla. Allora, io dico, che ogni cardiochirurgo, dovrebbe essere a conoscenza di questi fatti, per poter meglio inquadrare certi “anomali” atteggiamenti di alcuni pazienti, che alla vista del medico, reagiscono come se avessero visto un mostro: ed in effetti, per loro, in quel momento egli rappresenta un assassino.
Per quanto riguarda l’approccio psicologico a questa tipologia di pazienti, è da preferirsi -nell’ambito della PNL- l’utilizzo di un canale cinestetico, che miri a riportare alla realtà la persona rapita da allucinazioni paranoiche, accompagnate da notevole sospettosità e diffidenza nei confronti di tutto il personale medico. Il colloquio con i parenti dei pazienti è fondamentale, per trasmettere al malato un senso di fiducia e di calma accogliente, che dopo la parentesi paranoica, si trasformerà in un rinnovato senso di coesione familiare. Personalmente, utilizzo con loro una mimica facciale più aperta, impiegando spesso il sorriso, che il più delle volte è ricambiato spontaneamente, dandomi così la sensazione di “baipassare” seppur momentaneamente, l’incombente e minaccioso universo paranoico. Una volta risoltasi la fase persecutoria, ai pazienti resta in genere l’istinto di compensare il loro passato atteggiamento di sospettosità, con un senso di riconoscenza e gratitudine verso la clinica ed il personale.



Morte e proiezione

Un discorso sulla morte implica necessariamente un discorso sul suo contrario, la vita. Ora, si dice che la vita pulsa. Il concetto di pulsazione trova un equivalente psichico in quello di desiderio: la costante ricerca di ciò che non si ha o di ciò che non si è. Nell’atto del pulsare il pieno si trasforma in vuoto e viceversa. Vi è cioè uno spostamento di materia (ad esempio sangue) da un luogo ad un altro. Un equivalente psichico di questo concetto lo ritroviamo nella proiezione: qualcosa si sposta, migra. Si tratta di contenuti inconsci che traslano per via di un anelito. Questa è una rappresentazione della vita. Alla base vi è dunque la proiezione con il suo corollario di contenuto inconscio.
Ergo, cos’è la morte? L’assenza di proiezione. Diremmo, allora, l’assenza di elementi inconsci. In altri termini, l’inconscio è un anelito, un elemento desiderante. E’ un’entità dotata di desideri autonomi che devono in qualche modo aggirare le restrizioni, le sicurezze e le regole dell’Io. Ma l’Io è anche l’esplicitazione, la traduzione di quei desideri, la “civilizzazione” e la raffinazione di quell’energia bruta. Nel compromesso creativo tra le due principali istanze (Io ed Es) nasce la vita, per come noi la conosciamo. Ma il compromesso porta con sè sempre una quota di energia residua (non impiegata) che potrà essere poi destinata alla proiezione. Si potrebbe dire che la psiche “pulsa” attraverso la proiezione.
Allora, è lecito supporre che, finché la mente conserverà la capacità di proiettare, trasfigurando la realtà sotto l’impeto di uno sterminato mondo interiore, il sovraumano continuerà ad abitare su questa terra e a noi non resterà che partecipare.



Voler morire

Negli ospedali non è insolito imbattersi in pazienti poco collaborativi che si lasciano andare e apparentemente vorrebbero solo morire. In terapia intensiva, in modo particolare, si può riscontrare una preoccupante statistica di questo tipo. Se consideriamo poi soltanto i pazienti di lunga degenza, il cerchio si restringe parecchio e ci si imbatte quasi sistematicamente in persone, che sembrano demotivate a vivere. Anzi, ti guardano con lo sguardo implorante, come se ti chiedessero un semplice gesto di pietà, che a te non costa nulla e a loro risparmierebbe molta altra sofferenza. Loro credono questo. Mi sono fatto tale idea, proponendo semplici domande alle quali rispondevano con un cenno della testa o delle palpebre.
Io personalmente non sono a favore dell’accanimento terapeutico, anche quando questo assume forme più blande e sfumate. E in terapia intensiva, si sa, la vita è affidata ad una serie di macchine.
Quella che mi sforzerò di raccontare brevemente, è la storia di una paziente, che per lunghi mesi è stata costretta a letto, assistita appunto da tali macchine. E vi racconterò di un’idea discutibile su un piano etico, ma che a me ha dato una sensazione di gioia e leggerezza, anche se, come psicologo, non posso fare a meno di riflettere sul fascino legato al “potere” di fare il Bene o fare il “Male”, che il mio gesto sottende.
L’idea è stata quella di preparare la persona a morire serenamente, senza sensi di colpa per lasciare i familiari e senza vergogna per non fare la cosa reputata giusta (cioè vivere). Mi rendo conto che parlare di preparazione alla morte è e resterà sempre “futuristico”, in quanto mi sento per definizione impreparato sull’argomento. Tuttavia, nel vedere la paziente da vicino, giornalmente, per un periodo di circa un mese, non ho potuto sottrarmi ai suoi occhi blu che dietro la generosa età di 83 anni, hanno mantenuto una straordinaria carica comunicativa. E il messaggio che quello sguardo convogliava era una richiesta compassionevole di pietà. Il punto è che tale richiesta non veniva verbalizzata né resa esplicita, mentre era evidente che la paziente si fosse lasciata andare, perdendo ogni interesse a collaborare con il personale ai fini della riabilitazione.
Un giorno, come al solito, scendo in terapia intensiva e la trovo dormiente. Decido di praticarle lo stesso una induzione di rilassamento, che dovrebbe prevedere, come per le altre volte, numerose suggestioni rivitalizzanti, rinvigorenti e toniche. Insomma, una sferzata di vita. Ma cambio idea. Forse perché con lei mi sono sentito impotente, incapace di trascinarla dalla parte dell’entusiasmo e della vita. Allora, esordisco con un “…sono venuto a salutarla, forse, non ci vedremo più, forse non arriverà domani. E’ ora di andare, è l’ora dei saluti… è un bel momento, pieno di serenità. Il corpo è come una biglia che rotola e si lascia andare… è bello cedere…”. Il mio atteggiamento religioso mi suggerisce di inserire a questo punto il concetto di anima: qualcosa che si mantiene dopo la morte. Qualcosa che, come una “corda di violino tesa sul filo dell’orizzonte varca”. E quindi mantiene una sua identità anche “dopo”. Questo senso di continuità che rassicura la persona è reso, nell’induzione, con l’immagine della fiamma di una candela, che compare ora al di qua di una finestra, che si affaccia su un nuovo scenario, ora al di là di essa. E resta sempre “viva”. Ho scelto l’immagine della candela perché per me la vita “arde” e “risplende”, ed anche perché al test che indica il sistema rappresentazionale preferito, Teresa è risultata cinestetica (K) e dunque, per lei l’immagine della candela, che con il suo bruciare e consumarsi rimanda a sensazioni corporee, ha un grande impatto.
Nell’eseguire l’induzione, mi rendo conto di essere troppo direttivo e che devo pertanto dare un’alternativa alla paziente. Tanto più che l’alternativa sarebbe la vita! Quindi le propongo una seconda strada e la possibilità di scegliere. Faccio di tutto per creare una visualizzazione ricca di stimoli positivi, come l’incontro con gli adorati nipotini e rigeneranti passeggiate lungo gli alberati e profumati sentieri, verso casa. Spero proprio che la mia paziente scelga questa seconda via, ma sento che non lo farà. Infatti, purtroppo, Teresa si lascia andare e divorata da un’infezione cardiaca, muore.
I medici se l’aspettavano, mi dicono che era messa male, ma a me piace pensare che nell’ultimo istante, Teresa abbia operato la sua personale, autonoma scelta. E scegliere, per me, vuol dire, ancora una volta, partecipare, partecipare al gioco della vita …che se ne va.



Dr. Roberto Ruga.





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