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Articolo pubblicato sul Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura
(nr. 8, Aprile 2009)


Una psicoterapia ad arte


(Estratto)

I momenti cruciali di un percorso terapeutico sono spesso portatori di un alto contenuto artistico, che fa di quegli attimi ad elevata intensità emotiva, momenti trasformativi per eccellenza, nei quali terapeuta e paziente sono protagonisti di azioni e vissuti che si collocano al di là di ogni tecnica.
Partendo dal presupposto che l’arte è inspiegabile, ho cercato di mettere a fuoco, ove possibile, alcuni elementi che costituiscono, a mio avviso, il valore di un gesto terapeutico, che travalica e va oltre la consueta tecnica, per sconfinare nel mondo dell’arte.
Presupposti propedeutici di un tale fare terapeutico sono: un forte coinvolgimento transferale reciproco, l’utilizzo della comunicazione inconscia (in particolare dell’identificazione proiettiva) e la scelta di metafore, suggestioni e allusioni che portano in contatto il paziente con la propria parte inconscia, ovvero “saggia”, aprendolo al nuovo.
Gli esempi clinici descrivono un atteggiamento terapeutico “ispirato”, fatto di totale fede nelle potenzialità inespresse del paziente. La terapia che ne risulta viene definita eroica perché è in grado di trasferire sull’altro, tramite contagio, un modo di essere temerario, impavido, creativo.



Articolo integrale
Maneggiare il materiale psichico richiede il massimo tatto e una sensibilità prossima a quella degli artisti. (Jung 1934, p. 240)

Per il nostro lavoro, rifarsi al modello di una “mente artificiale”, con tutte le sue brave componenti e il suo bravo “know-how”, sarebbe come confondere un quadro con la tavolozza e i pennelli usati dal pittore che lo ha dipinto, o una scultura col marmo e lo scalpello impiegati per dar vita ad una statua. Ma allora dobbiamo riconoscere che il nostro lavoro ha a che fare più con le arti che con le scienze. (A. Carotenuto, Freud il perturbante, p. 133)



Arte oltre la tecnica

Nel linguaggio comune una cosa fatta ad arte è una cosa fatta bene, così bene, che suscita meraviglia, incanta. Arte è dunque la strategia vincente, la parola liberatrice che crea connessioni, una risposta che illumina, un gesto ad elevato contenuto emotivo e dal potere comunicativo, il silenzio della mente che apre all’ascolto di sè. Arte è l’interpretazione “ispirata” che permette l’irruzione della verità. Arte è ciò che muove gli spiriti sensibili ad andare oltre i confini ristretti della domanda iniziale. Dunque, cos’è che cura? Una relazione ad arte.
Ecco che l’arte nel setting analitico è richiesta quando lo psicoterapeuta si trova a dover gestire il rapporto. Ogni volta diverso, ogni volta unico. L’artista è lo specialista dell’unico, il professionista dell’inedito. Ma l’arte irrompe e si manifesta quando uno sguardo originale, che si traduce in un sentito ed ispirato gesto terapeutico, piace, e piace a molti: il “bello” diventa oggettivo, perché espressione di una libertà interiore contagiosa quanto seducente.
In origine, l’artista lavora in solitudine. Quando crea è introverso, ripiegato su se stesso, intento a decodificare i propri sussurri interiori. Il suo prodotto è estroverso, volto a gridare a gran voce la nuova novella al mondo. Lo psicoterapeuta è solo nella misura in cui egli solo “sa” ma sa anche “zittire il suo io” per creare il vuoto fertile, dando spazio all’intuizione. Le sue trame sono impalpabili, misteriche. Egli infatti tace. A volte, propone enigmi e paradossi, genera disagio, disorientamento, smarrimento, perdita dei confini. Ciò corrisponde ad una tela bianca o monocromatica sulla quale l’altro, il paziente, riversa le sue proiezioni. Questo è all’inizio. Subito dopo, il vuoto si colma e nasce un rapporto. E’ la gestione di questo rapporto che costituisce l’arte nel setting. In gergo tecnico, la gestione del transfert. A tal fine, esiste la tecnica, certo, ma l’arte è oltre la tecnica. Al cospetto dell’arte la tecnica è povera, non basta. La tecnica è universale, rappresentata da linee guida e principi largamente accettati. L’arte, in armonia con tali principi, rende il rapporto terapeuta paziente irripetibile e creativo. Impossibile dunque parlare e scrivere −nel tentativo di renderla riproducibile− di una tecnica creativa preconfezionata.



La nevrosi da transfert

Facciamo un esempio pratico e universale, direi archetipico: la nevrosi da transfert. In merito a come gestire questa condizione del paziente, la tecnica sembra scarna e povera. Dunque, essa deve essere un dominio dell’arte. Interrogandomi su questo tema, nella presentazione al mio libro: “Aldo Carotenuto, psicologia di uno psicoterapeuta” (edito dalla Armando), proponevo queste riflessioni:

“La risposta (su come si gestisce la nevrosi da transfert) si evince da ciò che Freud e Jung scrissero su questa particolare condizione del paziente. I due giganti della psicoanalisi ne parlarono cautamente, utilizzando “note” a piè pagina e non paragrafi, titoli altisonanti o libri dedicati al tema (La psicologia del transfert di Jung resta uno dei libri più difficili, soprattutto per l’inapplicabilità clinica dei concetti espressi); come se dovessero sussurrare questa profonda verità, per paura che il “segreto” si diffondesse tra chi doveva necessariamente restarne ignaro: il paziente.
Aldo Carotenuto ha analizzato soprattutto studenti di psicologia, e questo fatto creava una curiosa situazione: la terapia poneva l’essere ignari del “segreto”, come condizione stessa per la sua riuscita. Ma, ovviamente, prima o poi, uno studente (magari modello) viene in possesso del segreto. E allora che succede? Che succede quando chi dovrebbe essere ignaro, sa? Beh, si fanno le cose ad arte, si confondono le idee. Il principio guida resta sempre quello: ogni guarigione passa necessariamente attraverso la nevrosi da transfert.”


Dunque, laddove la tecnica è povera, deve subentrare l’arte della relazione, del relazionarsi.
Intanto, va detto che lo psicoterapeuta artista (lo psicoartista) crea la situazione propizia alla rinascita, utilizzando l’angoscia al posto del bisturi. Si preoccupa di sviluppare la giusta dose di angoscia per ogni paziente, approdando ad una nevrosi da transfert su misura, calibrata appunto ad arte:

“L’analista, conosce il punto di rottura di ogni anima e si spinge fino al limite della sopportazione, sapendo che più elevato è il rischio, più alta sarà la ricompensa, ovvero la rinascita.
La nevrosi da transfert calibrata su misura per ogni paziente, ne smantella l’Io, creando il vuoto fertile, un preludio ad ogni rinascita. Ecco che si va in analisi per sperimentare angoscia sotto controllo, angoscia sperimentale.”


Poniamoci ora questa domanda: cosa vorrebbe un buon genitore per i propri figli?

“Una vita felice, al riparo dal dolore. Certo, ma, sappiamo tutti che ciò non è possibile. Allora un buon genitore vorrebbe che al proprio figlio spettasse la giusta dose di dolore. Il suo dolore, non quello di un altro.”


Ora, cosa desidera un buon psicoterapeuta per i propri pazienti? Che spetti loro la giusta dose di angoscia. Direi, ad ognuno la sua nevrosi da transfert e non un’altra.
In una tale condizione terapeutica, sembrerebbe impossibile tracciare linee guida forti a cui attenersi. Freud e Jung non lo hanno fatto. Ed è anche vero però, che Freud “il padre della psicoanalisi” ha subito numerosi eccellenti “tradimenti” da parte di alcuni suoi illustri allievi, compreso Jung. Perché? Perché manca nel suo pensiero una teoria e una tecnica della nevrosi da transfert. Manca, direi, nel pensiero degli psicoanalisti. Perché? Perché richiede arte. Per definire meglio lo specifico di questa arte, mi vengono in mente almeno tre componenti: coinvolgimento affettivo, personalità del terapeuta e alte dosi di creatività.



Terapia eroica

Freud è approdato all’interpretazione come tecnica terapeutica. Bene, ovviamente non è poco, anzi è geniale nella misura in cui, secondo me, l’interpretazione è in una certa misura artistica. Mi spiego, l’interpretazione coniuga due aspetti apparentemente opposti tra loro: la logica, e l’intuizione. La prima mette insieme gli elementi emersi nel racconto del paziente, in maniera “intelligente”, la seconda li elabora in modo inaspettato e originale, quasi “folle”. Anche se l’intuizione è parente dell’arte, tuttavia, la sola interpretazione, seppure ben costruita, non basta a raggiungere lo spessore artistico necessario alla trasformazione del paziente. Ci vuole una terapia ad arte, a me piace dire eroica, laddove l’aggettivo creativa mi sembra più generico in quanto non connota ancora la temerarietà dell’azione insita nella terapia eroica. Nell’introduzione al mio libro, così sintetizzo questo concetto:

“La definizione di terapia eroica da me coniata sottende una motivazione inconscia legata alla scelta della professione di analista, basata non solo su di un conto aperto con l’inconscio (idea sostenuta da Carotenuto), ma essenzialmente sull’esigenza di autoaffermazione e di immortalità (tipica di un eroe), che nasce, nel caso specifico, da un complesso di inferiorità terapeuticamente trasformato in continuo opus creativo, in reciproca e continua relazione tra loro.
Eroica perché vi è di scena l’incredibile: l’analista è così intimamente convinto delle potenzialità inespresse del paziente, tanto da riuscire a plasmare la visione che questi ha di se stesso, non con le parole, ma semplicemente con un atto di muta fede. Affinché ci sia un’analisi eroica, è necessario un analista eroico dotato di uno sguardo lungimirante, ma soprattutto scopritore del talento nascosto nell’altro. E’ altresì necessario che l’analista tragga un particolare godimento nello scorgere prima, per poi estrarre dal materiale umano su cui opera, il prezioso elemento creativo (nel senso carotenutiano del termine). L’analista eroico è uno che ha fede estrema nella vittoria, nel trionfo del nascosto, nel risveglio di ciò che è sopito in fondo al paziente, il quale vive necessariamente momenti di stupore e di meraviglia. E’ allora che il terapeuta cavalca quell’incredulità e contro ogni ragionevole e realistica previsione, crede nell’avvenire di un nuovo e personale progetto del suo paziente: ecco la fede. La condizione di plastica progettualità suscitata nel paziente si coniuga con lo spirito eroico e temerario del terapeuta, dando vita all’inaudito. E’ in questi momenti che il paziente percepisce in pieno un senso di esaltazione, quasi di onnipotenza che fa sembrare ogni impresa come possibile.”


La terapia eroica potrebbe essere la risposta alla implicita richiesta di “arte” da parte del paziente, il quale non è esattamente consapevole di ciò che chiede, come lo è il terapeuta. Questi invece “sa”. Sa ad esempio che è richiesta l’arte come aiuto alla terapia, e sa che l’arte richiede l’essere ispirati. Il proprio transfert verso quel particolare paziente, fornisce al terapeuta l’ispirazione necessaria affinché l’arte accada. Lo rende creativo. Ma cosa crea il terapeuta? Crea convinzioni, ad esempio la convinzione nel paziente che sia a sua volta creativo, che entrambi siano creativi. Convinto di essere un artista, il paziente si comporterà come tale e rivolgerà un nuovo sguardo sulla propria esistenza. Certo, uno sguardo eroico, possibilista, grazie al quale l’inimmaginabile diviene probabile.
A questo punto, la seduzione ha già occupato la scena del setting. Nella mia tesi di laurea sulla psicologia della seduzione e la creatività, affermavo che la personalità creativa è seducente perché possiede l’arte di cambiare le cose ed il mondo, dunque anche se stessa. Al terapeuta creativo non resta che contagiare il paziente di questa sua intima convinzione. E’ allora che l’arte irrompe nel setting rendendolo inimitabile. Detto questo, va da sé che l’intercambiabilità del terapeuta non sia più praticabile. Uno non vale l’altro. Dove c’è arte c’è una firma e quella firma corrisponde alla coppia analitica e ai loro reciproci inediti sentimenti: al loro essere ispirati, con sentimento.
E’ la presenza del transfert (di entrambi) quindi a garantire e nutrire l’aspetto artistico di una terapia eroica. E se c’è una peculiarità caratteriale che non deve mancare al terapeuta, è certamente la sua propensione alla proiezione. Naturalmente, abbondantemente controllata e resa consapevole.



Uno psicoartista all’opera

La musica è arte, certo. Si ascolta. La pittura, la scultura e l’architettura sono arti visive, si ammirano. Anche lo sport è una forma d’arte ed è facilmente fruibile.
Lo psicoartista fa arte. Ora, la domanda è: da cosa si deduce? Quando è di scena la sua arte nel setting terapeutico? Come la si riconosce?
Facciamo un esempio ispirandoci ai lavori di Patrick Casement. Il paziente durante una seduta esordisce scusandosi del ritardo e dando la colpa al traffico, poi insiste sull’argomento parlando di difficoltosi parcheggi, di attraversamenti pedonali regolati da noiosi semafori, di pozzanghere da evitare.
Lo psicoartista ascolta e tra sé e sé si pone delle domande: “Cosa mi sta dicendo? Quando non si sente all’altezza o in sincronia (ritardo) con chi? Quali sono gli ostacoli (traffico) che non riesce ad oltrepassare? Quali sono i “difficoltosi parcheggi”? Cosa c’è di noioso nella sua vita e cosa vuole evitare?”.
Lo psicoartista può a questo punto supporre che il linguaggio usato dal paziente, rimandi allusivamente ad altre persone per lui significative: i difficoltosi parcheggi potrebbero alludere ad un rapporto di coppia ormai stanco e difficile. Ma tutto ciò non è ancora arteterapia. E’ quando le difficoltà, la noia e gli esitamenti vengono riferiti alla relazione analitica e “transferizzati”, che l’arteterapia inizia a farsi.
Transferizzazione significa riproduzione, riedizione. Si, ma ad arte. Riedizione con qualcosa in più: l’opportunità, questa volta, di fare l’eroe e non la vittima. Lo psicoartista di stampo eroico scrittura il paziente per la nuova parte, ne immagina con desiderio il copione e anela come un bimbo alla proiezione di questa particolare riedizione. Riedizione al cospetto di un altro desiderante. Un altro (il terapeuta) che ha fede. La stessa fede presente nello sguardo di una madre compiaciuta ed orgogliosa per i primi passi del suo bambino.
Ma tutto ciò non è ancora terapia fatta ad arte. Affinché ci sia un’arteterapia interamente dispiegata è necessario che lo psicoartista crei e impronti la nevrosi da transfert del paziente, lasciandosi ispirare dalle metafore incapsulate nel suo linguaggio. E’ da lì che deve nascere la sua ispirazione per direzionare ad arte lo spostamento nevrotico del paziente dal suo vecchio e limitato problema che lo ha condotto in terapia, a quello nuovo, comprendente il terapeuta stesso. Adesso sì, che ci sono le condizioni affinché l’arteterapia possa interamente dispiegarsi.
Ovviamente, il processo è complesso per via della difficile gestione emotiva richiesta. La difficoltà consiste anche nel tradurre in “azioni” terapeutiche le metafore linguistiche del paziente. Il “traffico” è ad esempio, qualcosa che “attanaglia”, circonda, assedia, “soffoca” il senso di libertà, coarta e limita. Si tratta forse allora di togliere progressivamente “aria” al paziente? Questo, perché l’aria che respira non è quella giusta? Allora, bisogna “soffocarlo” e poi farlo respirare per la prima volta? Passa necessariamente da qui la sua rinascita? E, ancora, se è il silenzio che lo attanaglia, il fargli credere di non ascoltarlo può essere una modalità “artistica” di “soffocamento”?
Non si può rispondere con semplicità a tali quesiti. Essi richiedono tutta la sensibilità dell’artista, tutto il tempo necessario, e tutte le parole-guida che il paziente porta in terapia. Il mio piccolo esempio voleva solo stuzzicare la curiosità del lettore e avanzare l’idea che una nevrosi da transfert veramente efficace, cioè terapeutica, sia quella creata su misura per quel paziente, a partire dal linguaggio che usa.
L’idea non è del tutto nuova. Patrick Casement nel libro “Apprendere dal paziente” (edito da Cortina) a pag. 36, suggerisce di astrarre i temi riconoscibili dal linguaggio del paziente:

“Se, per esempio un paziente dice: “Il mio capo è arrabbiato con me”, posso astrarre che “qualcuno è arrabbiato con qualcuno”. Non è chiaro di chi sia la rabbia, né verso chi sia diretta, ma questo problema può essere considerato un’apertura mentale maggiore di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Si può trattare di un’allusione alla rabbia del paziente, proiettata sul capo; di un riferimento al transfert, in cui il terapeuta viene visto come arrabbiato, oppure un tortuoso rimando alla rabbia del paziente verso chi lo sta curando.”


Gli esempi sono tanti e potrebbero continuare. Prendiamo il caso di una paziente che dice: “sono stata dal dentista, il trapano gli è scivolato e mi è finito sulla lingua; faccio fatica a parlare”. Il terapeuta potrebbe pensare che la paziente gli voglia dire inconsciamente che non si occupa abbastanza di lei, facendola sentire ferita. La paziente dunque racconta di essere stata ferita e di fare fatica a parlare (il terapeuta traduce: a farsi capire).
Casement chiama questo processo comunicazione derivata, e la definisce come una modalità indiretta di trasmettere pensieri o sentimenti, postulando l’esistenza di una causa prima che li ha fatti emergere e che ha con essi un rapporto di associazione inconscia, o di derivazione. Dunque, deduciamo che la paziente sta alludendo a qualche recente interazione, in seduta, in cui si è sentita urtata: è questo il senso dell’allusione al dentista. Ma spingiamoci ancora oltre, scegliendo un esempio in cui il transfert è evidente. La paziente racconta che durante la settimana è caduta. Per un momento, ha pensato che ci fosse qualcosa che non andava in lei, un mancamento improvviso; si è poi resa conto che non è stata quella la causa; ha inciampato in una lastra di pietra mal messa. Dice che non è sicuro lasciare i marciapiedi in quelle condizioni, se la prende con le autorità che trovano sempre il modo di non assumersi responsabilità e non fanno niente per mettere le cose a posto.
In questo esempio, è probabile che la paziente stia criticando l’operato del terapeuta; forse ha anche introiettato il modo di “inciampare” del terapeuta e lo ha agito: è caduta, e si è dapprima domandata se non fosse colpa sua. Ha poi capito che non c’era qualcosa di sbagliato in lei, ma nel terreno su cui camminava. Tutto ciò sembra un riferimento inconscio ai difetti del modo di operare del terapeuta.
Fin qui, Casement, che si rifà a Bion e Winnicott, sarebbe perfettamente d’accordo. Ma lo psicoartista è pronto ad andare “oltre”. E’ a questo punto, infatti, che il terapeuta utilizza artisticamente la metafora sottesa nella comunicazione inconscia del paziente, per cavalcare una nevrosi da transfert su misura. E lavora sulla “caduta”. Ci lavora provocando cadute. Forse, addirittura, cadendo egli stesso, laddove l’altro, il paziente, resiste ad ogni caduta per paura di farsi male. Allora, cade di persona, al posto del paziente, inducendone la caduta e trascinandolo seduttivamente verso il basso, dentro la malattia. Ecco un esempio personale.
A proposito di “cadute”, ricordo quanto successe durante una seduta nel corso della mia quinquennale analisi con Aldo Carotenuto, il quale se ne stava seduto su una sedia girevole con le rotelle e scriveva al computer. Come racconto nel mio libro:

“D’improvviso sentii un rumore metallico e secco: la sedia si era rotta ed il prof. era caduto dietro la scrivania. Mi alzai facendo il giro della scrivania, e lo vidi per terra, immobile. Ero pietrificato e non riuscivo neanche a tendergli la mano per aiutarlo a rialzarsi. Penso che lui attese un po’, per darmi l’opportunità di aiutarlo, ma io restai immobile. Così si rialzò da solo e si rimise a lavorare, come se niente fosse accaduto. Dopo un po’, gli feci notare che sentivo che con il suo comportamento, etichettato da me “come se niente fosse”, mi volesse comunicare una cosa importante. Allora lui mi disse “sei perspicace”. Trassi la mia morale: di fronte alle difficoltà, bisogna reagire così come avevo visto fare, in una sorta di scena psicodrammatica, nella quale non si spiega il concetto, ma lo si agisce. Alla seduta successiva volli parlare della necessità di lasciarlo in terra e della mia esigenza di “ucciderlo” simbolicamente, ritirando le mie proiezioni, un po’ come fa l’adolescente, per differenziarsi dai genitori.”


Questa “caduta ad arte”, dove l’artista ovviamente è l’inconscio dell’analista che dialoga con l’inconscio del paziente, all’epoca ha smosso in me qualche ricordo connesso alle “cadute”, ma la lezione importante che ebbi modo di assimilare fu questa: qualunque cosa accada, rialzati come se niente fosse accaduto. Ci si potrebbe chiedere se si sia trattato di identificazione proiettiva. Certo, ma mentre nel caso dell’identificazione proiettiva, il terapeuta ha soltanto l’occasione di identificarsi e vivere un vissuto che gli viene proiettato addosso dal paziente, nel nostro caso, invece, siamo “oltre”. Vale a dire, abbiamo una risposta metaforicamente attuata (inconscia?) al problema, ovvero, una soluzione terapeutica: “nella vita, non devi temere di combattere e rischiare tutto, poiché anche se cadi (e sicuramente cadrai) allora, rialzati e vai avanti! Lo puoi fare”.
Questo è a mio avviso, un modo artistico (ed eroico) di fare terapia. Di artistico vi è la modalità comunicativa utilizzata, di eroico i contenuti della comunicazione.
Ora, io sostengo che per innescare (proiettivamente) nel terapeuta sia l’identificazione (indotta inconsciamente dal paziente, per far vivere, elaborare e superare al terapeuta la paura di cadere) che la risposta eroica risolutiva, questi deve essere un po’ sedotto dalla situazione. Deve essere cioè talmente immerso nella nevrosi del paziente, da esserne nevrotizzato egli stesso. E’ allora che si attiva l’atteggiamento eroico. Di chi? Ha poco senso chiedersi di chi, l’importante è che ci sia un eroe in campo. Un eroe ispirato, perché sedotto e contagiato dall’altro. Sarebbe bello poter ammettere che si tratti del paziente, ma è il terapeuta che deve innescare la scintilla creativa, istruendo (per restare nell’esempio) con le sue cadute. Egli riesce ad utilizzare la sua nascente nevrosi da transfert (da controtransfert) a fini terapeutici, consentendo l’accesso alla fase finale della terapia.



Ammalarsi di sé

Una esplicazione di questo sintetico titolo potrebbe essere: dalla nevrosi da transfert alla malattia di sé. Spiego meglio. Come si conclude una nevrosi da transfert? Con una elaborazione e la successiva risoluzione. Dunque il transfert si affievolisce e l’affetto si svincola dall’originario oggetto, cioè il terapeuta-genitore. Ma una tale quantità di energia libera, svincolata appunto, non può restare inutilizzata e senza oggetto. Sarebbe un inutile dissanguamento psichico. Così, lo psocoartista deve direzionarla altrove. E quale migliore oggetto se non il paziente stesso?
Sembra che questo discorso implichi un ritorno al narcisismo infantile. Ma non è così. Questa volta il narcisismo è sano, creativo, dunque propulsivo, oserei dire “estroverso”. E’ come se si stesse portando il paziente ad autosedursi, ovvero a coltivare il proprio mito, allorché egli inizia a trarre godimento dall’osservazione-ascolto del proprio mondo interiore. La terapia lo ha reso recettivo ai propri moti interiori, affascinato, dunque sedotto. E’ questa una sana seduzione, perché l’oggetto cui si lega l’affetto è interno al paziente stesso e dunque questi non dipenderà da nessuno. La sua “malattia” iniziale si è introvertita. Questo è un vantaggio almeno per la semplice ragione che il paziente stesso, ora, dopo la terapia, possiede gli strumenti per decodificare se stesso. Il malato è diventato anche medico di se stesso. Naturalmente, non tutta l’energia psichica verrà sacrificata per interpretare se stesso (il mio Maestro Aldo Carotenuto amava dire: “io interpreto solo me stesso”) infatti, se la terapia ha funzionato, il paziente ha più “aria” nei polmoni e può effettuare maggiori investimenti psichici sulle aree di interesse che ritiene idonee. Una novità rispetto a prima, consiste nel fatto che adesso il paziente è in grado di supervisionare se stesso, grazie ad una acquisita familiarità nel relazionarsi col proprio mondo interno che ha subito una ristrutturazione.
A questo punto, possiamo dire che il paziente si è identificato con l’archetipo dell’Eroe, laddove però, la terra da conquistare non è all’infuori di sé ma dentro.
Bene, una terapia eroica genera eroi, o meglio, atteggiamenti da eroe. Atteggiamenti, diciamo pure, da artista. E, non dimentichiamo, che inconsciamente il paziente sa di cosa ha bisogno. Una tale “saggezza” dell’inconscio, sia del paziente che del terapeuta, costituisce il substrato, le fondamenta, la stessa tela insomma su cui si gioca l’arte della terapia. Diciamo pertanto che all’origine c’è l’inconscio. Non a caso il libro in cui Aldo Carotenuto dedica maggior spazio all’analisi dell’arte, mostra il suggestivo titolo: “La mia vita per l’inconscio”.



La nevrosi da transfert del terapeuta

Esiste un transfert ed esiste un controtransfert, chiamato anche transfert dell’analista. Esiste una nevrosi da transfert (riferita al paziente) ed esiste una nevrosi da transfert riferita al terapeuta. La prima è una consuetudine, la seconda una rarità.
Dunque, anche il terapeuta può “ammalarsi” di una malattia indotta non consapevolmente dal paziente. In tal caso, il terapeuta potrebbe nevroticamente aspettarsi che sia il paziente a venire in suo soccorso. Ma, la domanda ora è: “come sfrutta il terapeuta una nevrosi da transfert riferita a sé? Aldo Carotenuto, uno specialista della terapia eroica, ne ha parlato (per vie indirette) nel libro “Riti e miti della seduzione”, in un folgorante capitolo dal titolo “tre voci”. Il contenuto poetico e dunque artistico di questo capitolo è a mio avviso, rispetto a tutta l’opera del Maestro, massimo. Ne deduco che è in tale ambito, nell’ambito di una nevrosi da transfert del terapeuta, che l’arte deve interamente dispiegarsi. E’ l’arte insomma che, soprattutto adesso, soccorre la coppia analitica. Qui, infatti, la tecnica tace.
Nel capitolo in questione, il sentimento che sovrasta il terapeuta (ma possiamo anche leggere: la nevrosi) pian piano sembra sfumare da sé, in modo naturale. Da notare, il fatto che il racconto si focalizza sulle funzioni sentimento, sensazione e intuizione. La funzione pensiero, vi entra poco, resta in ombra. Questo può sembrare strano, visto che in tutta l’opera di Carotenuto, il pensiero è sempre lucido, penetrante, esplicativo, dominante. Ma non è strano, se riflettiamo sul fatto che nessun teorico abbia pensato a fondo sulla condizione di nevrosi da transfert riferita al terapeuta e sui suoi risvolti clinici. Eppure, è lì che si cela l’essere ispirati, dunque pronti a generare arte. Ora, stando al racconto presente nel suddetto capitolo, non può sfuggire il fatto che sia un racconto a “tre” voci. Dunque, se di tre si tratta, è presente un fantasma, quello del quarto (assente).
Laddove il tre rimanda al triangolo, simbolo di perfezione (riproponendo la triade idilliaca Padre, Figlio e Spirito Santo) esclude il quarto, cioè il Male. Non è forse questo un linguaggio inconscio? Ad arte? Si potrebbe dire, che mancano le “lacrime del male”, ovvero, una analisi che non elabori lacrime, fa poca arte. Ma di chi sono tali lacrime? Di entrambi.
Vediamo di capire meglio. Supponiamo che la nevrosi di cui si parla in questo paragrafo, sia supportata proprio dall’assenza del quarto, cioè del Male. Assenza, nel nostro discorso, vuol dire “resistenza” ad ammetterne la presenza. In altri termini, si tratta di una resistenza al pianto: la paura che quelle lacrime possano “sciogliere” (cioè distruggere) l’analisi; laddove dovrebbe essere il contrario, cioè l’analisi a sciogliere il dolore.
Se ne deduce che è dalle parti del Male che bisogna andare per passare dal numero tre (la perfezione) al numero quattro, rappresentante della completezza. Jung credo, concorderebbe.
Ci vuole allora, una teoria e una tecnica del male in terapia. Una teoria cioè, che preveda ed esplichi l’agito del male. Male agito ad arte, ovviamente.
E che cos’è una nevrosi da transfert se non il frutto di un’azione supportata dal quattro? Il problema nasce se l’azione è inconsapevole, mossa cioè da complessi inconsci (soprattutto se del terapeuta), e in tal caso si resta al tre poiché manca la possibilità di elaborare l’aspetto nevrotico del transfert.
Affinché il passaggio numerico abbia luogo, il terapeuta dovrà “giocare il Male” per renderlo fruibile e metabolizzabile al paziente. Si tratta di gioco, nella misura in cui ha qualcosa di irreale e nel contempo di reale. In questo “come se” il terapeuta ci crede, mostra la sua fede, desidera giocare nel ruolo di “cattivo”. Ma fa il bene del paziente. Il bene è il quattro. Quattro voci. In ciò è sottointeso che il terapeuta abbia a tempo debito elaborato, nel corso della sua analisi, il proprio transfert negativo. Qui però, la psicoanalisi ha avuto le sue resistenze. E’ stata poco dalla parte dell’arte e più dalla parte della paura. E’ stata, insomma, di parte.
La via d’uscita è l’Arte. Arte oltre la tecnica.



Arte della tecnica e tecnica dell’arte

Una cosa fatta ad arte, è una cosa fatta bene. Chi è che fa le cose bene, ad arte? Una astrazione del Vecchio Saggio: l’inconscio.
Laddove il terapeuta si trova sull’orlo (per fortuna?) di una nevrosi da transfert, in effetti è l’inconscio del paziente che viene in suo soccorso. Così come il paziente, quando era ancora incapace di esprimere la propria sofferenza, la induceva inconsciamente nel terapeuta rendendolo capace di coglierla; per lo stesso principio, adesso può indurre (inconsciamente) saggezza nel terapeuta. E’ un caso di contatto profondo tra i due. Il contatto profondo è un fatto artistico. La tecnica, deve essere una tecnica di contatto, di apertura al rapporto. La tecnica inconscia per eccellenza, prodotta inconsapevolmente dal paziente per creare contatto profondo è senza dubbio l’identificazione proiettiva. Il senso di tale tecnica si sintetizza come segue: il paziente proietta nel terapeuta una rappresentazione di sé e il terapeuta si identifica inconsciamente nel ruolo propostogli, iniziando a sentirsi o a comportarsi conformemente ad esso.
Faccio un classico esempio. La paziente mi parla di un improvviso lutto che sta attraversando a causa della morte del figlio. Al funerale, dice di aver voluto piangere ma si è trattenuta. Da allora, non ha versato mai una lacrima. Poi, la paziente riferisce una terribile sequenza di episodi drammatici accaduti nella sua vita. Nessuna lacrima. Il suo tono di voce è freddo, distaccato, l’emotività coartata, i sentimenti assenti. Mentre la ascolto, dentro di me, al contrario esplode l’emozione, mi sento quasi sopraffatto, ho la sensazione che le lacrime mi scendano internamene ma che non mi appartengano. E questa reazione è suscitata in me dalla mancanza di pianto nella paziente: le due cose sono strettamente connesse.
E’ come se la paziente avesse l’abilità di farmi vivere al posto suo, ciò che lei non può ancora permettersi di sopportare consapevolmente. Dunque, si tratta di un lutto non vissuto, ovvero rinviato. Pensando a come aiutarla, mi viene in mente di farle notare che sta iniziando a piovere e che tra poco pioverà molto forte. Le spiego che lo hanno detto alle previsioni del tempo. Mi alzo dalla sedia, mi avvicino alla finestra, osservo il cielo e poi mi siedo accanto alla paziente che inizia a singhiozzare. Sono felice per lei e mi verrebbe voglia di farle i complimenti o di congratularmi.
Non sarà chissà cosa, ma questo è un esempio di ciò che intendo per arteterapia. Detto tra noi, se non fossi stato sicuro del maltempo in arrivo, avrei utilizzato qualche cd new age, col tipico sottofondo di pioggia e natura.

Bene, cerchiamo di capire cosa ha funzionato. La tecnica è quella di utilizzare un parallelismo metaforico, costruito in modo velatamente allusivo, tra le gocce di pioggia e le lacrime, entrambi accumulatesi oltre misura, ineluttabili, naturali. La comunicazione viaggia a livello inconscio o preconscio ed è arricchita da ulteriori suggestioni, assonanze o similitudini: nel dire alla paziente “tra poco pioverà” uso un tono di voce caldo, sussurro la frase ingrandendo di poco i miei occhi, come a enfatizzare e rendere solenne il momento. Poi, guardo il cartone di fazzolettini di carta sul mio tavolo, come a dire che la “pioggia” finirà lì. Infine, allargo di poco le braccia e sbottono il colletto della camicia, sottolineando come sia bello quando piove; l’acqua d’estate è così attesa dal terreno e dalle piante, che sarebbe un peccato lasciarla lassù.
Perché la paziente si è lasciata andare? Cosa l’ha convinta? Probabilmente, l’identificarsi con la natura, il sentirsi consonante ad essa, la sensazione di essere accolta empaticamente e quindi di trovarsi in compagnia nel suo piangere, o, forse, l’impressione di aver assimilato grazie al mio atteggiamento e alla comunicatività delle allusioni, il mio modo non ansioso di accogliere la “pioggia”, il pianto, il dolore: le risorse necessarie ad affrontarlo. Difficile dirlo e spiegare l’arte, se di arte si è trattato. Diciamo semplicemente, che una componente artistica si manifesta nella psicoterapia quando la comunicazione inconscia utilizzata, sprigiona nel paziente un atteggiamento eroico-artistico per il quale egli può permettersi, senza paura, situazioni emotive nuove. Accompagnato dal terapeuta, incitato e contagiato dal suo eroismo temerario, il paziente risponde al linguaggio inconscio, se ne lascia incantare ed entra, incantato, nell’arte. Si sente creativo, quindi diventa creativo, producendo il proprio dolore inespresso, “creandolo” come mai aveva fatto prima. Dunque è lui che crea, e crea dolore, lo plasma. Mi piace dire, “sceglie” il suo dolore, un dolore percepito finalmente su misura per lui, quindi tollerabile. Ora, lo può fare inconsapevolmente.
In questo processo, il ruolo del terapeuta è quello di limitarsi a fornire qualche strumento (come tela, pennelli e colori), introduce il paziente ad una tecnica di ascolto sulla comunicazione inconscia. E soprattutto, non soccombe ma “sopravvive” al suo dolore, dimostrandosi contento e orgoglioso del suo adepto.
Una cosa fatta ad arte è una cosa fatta bene. Chi è che fa le cose bene? Chi, si dà all’anima intensamente? La risposta è: chi è coinvolto personalmente, chi è “preso” da ciò che fa e vi si dedica con dedizione totale e passione. L’insight del terapeuta funziona solo se è “toccante”. E’ toccante se il terapeuta è “toccato”, cioè emozionato dal paziente e viceversa. L’arte richiede la totalità dell’uomo. Ergo, non c’è arte senza transfert. E non c’è transfert se manca l’arte. L’arte ad esempio, dell’ascolto.



L’arte dei piccoli gesti

Lungo tutto il percorso terapeutico, ci sono fasi cruciali, interpretazioni illuminanti, ma anche tanti piccoli gesti che esprimono una straordinaria comunicatività e per questo, rappresentano momenti di quotidiana arte. Ecco un breve esempio. La paziente, curata nell’aspetto, si esprime con un linguaggio visivo, utilizzando espressioni come “è stata un’esperienza allucinante”. Poi si lamenta di una difficoltà a “mettere a fuoco” ciò che le sta accadendo e racconta di continue liti col marito che le cose “non le vede allo stesso modo”. I suoi occhi sono stanchi e arrossati, si toglie gli occhiali e li posa a lato della scrivania che condividiamo, portandosi le mani sul viso. Osservo la montatura di qualche tempo fa e le lenti velate da granelli di polvere e impronte. Mi viene l’idea. Raccolgo gli occhiali a gesti lenti, li maneggio delicatamente, soffio sulle lenti, poi, estraggo dalla mia tasca un fazzoletto e con estrema cura li pulisco. E continuo, mentre la paziente mi guarda attenta e immobile. Sento di aver toccato qualcosa di intimo ed è come se le mie mani fossero ora sul suo volto. Ci guardiamo e avverto la tipica suspance che accompagna i momenti in cui mi sento “ispirato”. Restituisco gli occhiali con un lieve sorriso, ricambiato.
Altro esempio, tratto ancora una volta dalla mia personale esperienza con Aldo Carotenuto e raccontato nel libro a lui dedicato:

“Qualche tempo dopo aver concluso la mia analisi, trovandomi di passaggio per Roma, decido di fargli visita. Mi fa accomodare sulla poltrona, nella stanza d’analisi. Gli mostro il suo ultimo libro che sto leggendo. Mi tende una mano, glielo porgo. Nel libro, verso il centro ho lasciato la mia penna per sottolineare i passaggi più belli. Utilizza quella per comporre una breve e amichevole dedica. Poi, con estrema naturalezza pone la mia penna sulla sua agenda. E’ allora che noto altre tre penne insieme alla mia, riposte al centro dell’agenda. Resto un po’ incantato. Alcuni attimi di silenzio e poi le ultime brevi battute prima di salutare il Maestro. Lo invito a gustare il Vecchio Amaro del Capo che gli ho donato come specialità calabra. Mi accompagna alla porta. Penso alle tre, ormai quattro penne, lì sulla sua agenda, al centro. Una è la mia. Non mi è stata restituita ed io non ho detto nulla. Una semplice penna bic nera. Che bello che non gliel’ho chiesta indietro, penso. Esco dall’edificio e mi avvio verso il grande cancello nero, che negli anni è diventato automatico. Sorrido e mi accorgo di essere un pò emozionato.
Difficile spiegare l’arte, ma sicuramente la portata emotiva dei due gesti intensamente comunicativi (pulire gli occhiali e “invitarmi” a lasciare la penna lì) riportati nei due esempi, è massimamente apprezzabile all’interno del transfert. Certo, ma non è tutto qui. Nel secondo esempio, il più criptico, le identificazioni (io sono quella penna, quella penna è il paziente) e le proiezioni reciproche (ognuno dei due potrebbe supporre che l’inconscio desiderio dell’altro sia quello di voler lasciare la penna lì) giocano un ruolo significativo. Dunque, per cogliere la portata del lapsus, bisogna considerare almeno due possibili ipotesi: la prima è che il gesto di lasciare la penna sulla agenda sia consapevole, cioè voluto, diciamo pure costruito terapeuticamente “ad arte”; la seconda ipotesi è che il gesto sia un lapsus autentico, cioè inconsapevole. Comunque sia, nell’uno o nell’altro caso, ai fini del discorso che qui si fa sull’arte, poco importa se il lapsus sia proprio o improprio, autentico o costruito ad arte. Infatti, la matrice ultima, l’ispirazione di un gesto ad arte è dell’inconscio. Il terapeuta può codificare tecnicamente (e questo sarebbe auspicabile) i sussurri del Vecchio Saggio, oppure può agirlo inconsapevolmente. Cosa cambia? Se si ha fortuna, niente. Altrimenti, si sa, senza l’aiuto della fortuna, si corre il rischio di restare in interminabili analisi.
Ma torniamo al lapsus. Intanto, l’oggetto penna riposto sull’agenda, ingenera nei presenti un senso di accoglienza e di appartenenza. La sua simbologia è pregna di rimandi per entrambi: Aldo Carotenuto è stato un prolifico scrittore (in lui le penne “riecheggiano”), per me invece, “quella” penna è legata ad una dedica che ha come oggetto l’amicizia. Riguarda me e il mio amico analista. Riguarda, forse, un presunto attaccamento irrisolto. Allora resta lì. Resta lì, distante da me, per istruirmi sul “distacco”, mi aiuta a (ri)sperimentare ed elaborare un piccolo lutto, che ha a che fare con la fine, forse, di un’analisi. Capisco che posso e “devo” lasciarla lì. Me lo sussurra quell’artista che è l’inconscio. Così mi suona l’invito del lapsus e lo accetto. Accetto di dimenticarla lì.
Ora, non vorrei sconfinare in una reificazione del lapsus, ma solo sottolineare la qualità comunicativa personale che possiede. Nell’ambito di questo discorso sull’arte, direi che è propriamente artistica (ribadisco, non so fino a che punto inconscia), l’idea di “invitarmi” a “dimenticare” la penna lì, interpretando e agendo con un gesto ad arte, il mio (e anche suo?) supposto desiderio inconscio di lasciare (nel suo caso, trattenere) lì una parte di me stesso, magari la mia “vena poetica”, ovvero una componente creativa. Ragionando su quest’ultimo caso, se il lapsus riguardasse il desiderio inconscio dell’analista di possesso degli altrui contenuti psichici, rappresentati dal simbolo-penna riposta sulla propria agenda, potrebbe allora essere autentico, di natura propria, cioè inconsapevole, e tradirebbe un attaccamento irrisolto dell’analista stesso, poco propenso a elaborare distacchi e perdite, che sarebbero vissute come meno gravi, nel momento in cui la penna con la sua “arte” dovesse restare lì.
Se applicassimo il meccanismo dell’identificazione proiettiva, dovremmo chiederci: “chi” sta proiettando il proprio desiderio sull’altro? Chi ci si identifica? Bene, il terapeuta “legge” (inconsapevolmente o intuitivamente) la mia esigenza-necessità di staccarmi da lui e dall’analisi. Diciamo pure che “vede”, cioè proietta su di me questa esigenza, forse perché è anche sua, e la agisce nel lapsus, creando così per me l’occasione di fantasticare o simulare prima il distacco da essa e da ciò che rappresenta (intanto, io mi chiedo: la lascio lì?) per poi attuare tale distacco, dopo averne sperimentata la fattibilità: io osservo la penna sulla agenda durante l’incontro e mi abituo all’idea di lasciarla lì, la coltivo.
Un lapsus quindi, che si basa sulla capacità del terapeuta di sentire su di sé l’esigenza dell’altro e di tradurla in azione, in gesto terapeutico. E’ questa traduzione che è artistica (ricordate la caduta che insegna a cadere?). Dunque, si tratta di un lapsus fatto bene, ad arte, perché terapeutico sia per il paziente che per il terapeuta i quali, a questo punto, possiamo dire, condividono lo stesso desiderio: elaborare un lutto.
Comunque, nel caso specifico, credo che il principale desiderio in gioco (da parte di entrambi) sia stato quello di condivisione, o comunanza, alla cui base vi è la gratitudine. Non lasciarla lì sarebbe equivalso ad un essere ingrato: le penne si lasciano solo in buone mani, mani degne. E chi le lascia, ovviamente è degno anche lui, ovvero si sente tale poiché è “investito” come tale da un terapeuta eroico.
Permettetemi ora, di ricordare un altro breve spunto interpretativo, tratto ancora dalla mia analisi con Aldo Carotenuto, che illustra come un’interpretazione “ispirata”(questa volta del paziente) possa creare un suggestivo momento altamente comunicativo. Siamo nel pieno del transfert, quando, durante una seduta, davanti ad una tazza di latte, caffé e miele, nel parlare di non ricordo cosa, commisi un elementare errore di grammatica, dicendo “se sarei” al posto di “se fossi”. Il Maestro mi corresse. Gli sorrisi e gli dissi una cosa che mi fece guadagnare con soddisfazione un suo sguardo intenso e prolungato. Gli dissi, quasi con aria di rimprovero, che quell’errore era la prova di una regressione operante in me, nel contesto del nostro rapporto. Continuammo insieme a sorseggiare silenziosamente il nostro cappuccino.
L’intervento correttivo dell’analista, che riporta l’altro ad una grammatica matura “al presente”, tradisce una probabile resistenza alla regressione del paziente laddove, invece, l’analista avrebbe dovuto accompagnare il paziente verso il basso, in un luogo che si trova “(in)dietro” rispetto al presente: nel passato, in un’età ed in una grammatica pre-scolare. L’analista, invece, vuole stare nel tempo presente. Resiste cioè all’emersione di un eventuale trauma, lo evita. Resiste alla regressione del paziente, non la vede, non la coglie, non la vuole, e non vuole impegnarsi-confrontarsi col trauma. Allora, lavora contro la regressione riportando l’altro al presente, ma curiosamente è uno che “cade”al cospetto di “quel” paziente. Cade per ricordarsi che “deve” cadere. Cade per ritornare nel luogo buio del trauma. E, cade per capire che non cade abbastanza, lui, insieme al paziente. La coppia “galleggia” troppo, si immerge poco. Resiste al ritorno alle origini, all’inabissamento.
Un Carotenuto troppo identificato con l’aspetto luminoso-solare dell’Eroe? Non ne vuole sapere di cadere?! Eppure, a lezione (ora ricordo) inciampa davanti a molti dei suoi studenti-pazienti: mentre parla e indietreggia, la sua caviglia urta contro la pedana della cattedra. Si fa uno sgambetto, di cui, evidentemente sente di avere bisogno: è l’inconscio che lo propone, ma, questa volta l’Io dispone diversamente e resta in piedi. Quando dico “è l’inconscio che lo propone”, intendo mettere in evidenza il suo aspetto saggio, profondo ed “artistico”.”


Questo breve frammento d’analisi mostra come, a volte, sia la coppia analitica che guida e dà spunti, al di là delle intenzioni dei singoli. Diciamo allora:“apprendere (l’arte?) dal paziente”. E, si sa, sono i sogni che infondono sapienza, istruendo ad arte più dei presunti errori di grammatica.



Sogni profetici

Pazienti di analisti freudiani fanno sogni freudiani. Pazienti di analisti junghiani fanno sogni junghiani. I pazienti in genere, possono fare semplici sogni premonitori, ma i pazienti di psicoartisti fanno sogni profetici. Sono profetici nella misura in cui l’inconscio elabora la realtà diversamente dall’ Io. La elabora ad arte. La profezia è l’arte di vedere oltre la realtà, cose che in effetti si trovano già nella realtà, solo che si nascondono dietro una velata simbologia, o impercettibili indizi. Lo psicoartista è uno che vede oltre, quindi interpreta i sogni ad arte: interpreta l’arte dell’inconscio, ispirando in tal modo i pazienti con la sua visione del mondo (e dell’inconscio) a produrre nuovi sogni ad arte. Egli induce quindi arte nel paziente. Qualcuno ha detto che il sogno è arte poetica “involontaria” (involontaria per l’Io). Infatti è l’Inconscio che “vuole” parlare, a dispetto di un Io che tace perché ignaro. Ecco un frammento di questa arte.
La paziente mi racconta il seguente sogno: si trova in un luogo con tanta gente, da sola. Le dicono che le regaleranno una collana, e le portano tante collane con “milioni” di perline bianche tutte uguali, non perfettamente rotonde, tutte piccole e della stessa dimensione. La stranezza del sogno è costituita dalla moltitudine anomala e spropositata di perline. Una simbologia che di li a poco si sarebbe rivelata nella vita della paziente, la quale ha un bambino di otto mesi che, dopo poche ore dal sogno, inizia a manifestare i segni di una febbre molto alta. Dopo una settimana di inutili cure viene ricoverato in ospedale dove, a seguito delle analisi del sangue, gli viene diagnosticata una infezione renale che ha fatto crescere i globuli bianchi fino a 20900.
In tal caso, la paziente aveva percepito che qualcosa non andava. Una mamma sa per istinto se il proprio bambino è in salute oppure no. Entra in ansia inspiegabilmente. Tutti la rassicurano, dicendole che è solo una comune febbre, finché gli esami le danno ragione.
Ora, chi è che fa le cose ad arte? L’inconscio. Infatti, il sogno propone una artistica connessione tra le innumerevoli, anomale perline e l’abnorme produzione di globuli bianchi. La somiglianza reale tra perline e globuli bianchi, ovviamente non interessa ad uno sguardo psicoartistico che vede legami a partire da uno stato d’animo (in tal cado l’ansia della paziente per la salute del piccolo).
Il sogno illustra come le profezie dell’inconscio vengano proiettate nel (e dal) mondo onirico ed al risveglio, lasciano perplessa la paziente. Le chiedo di parlarmi della moltitudine di perle. Mi spiega che ogni collana è formata da molti fili di perline.
Ho già incontrato sogni del genere e so, per esperienza, che le produzioni anomale di elementi multipli (come le perline) indicano simbolicamente una risposta immunitaria d’allarme, che consente all’organismo di fronteggiare situazioni avverse. Consiglio alla paziente analisi mediche più approfondite. Il resto è storia nota.
Pazienti di psicoartisti fanno sogni profetici. I sogni sono arte poetica involontaria, e dunque, la “via regia” verso l’inconscio è costituita della materia stessa di cui è fatta l’arte. Ed è quando un simbolo si accende di vita, che sprigiona (involontariamente?) arte.
Diciamo allora, che quando l’arte irrompe nel setting, i simboli vivono e ardono nel presente, laddove il presente è tutto il tempo. La tensione psichica sale e crea uno stato di suspance, come se qualcosa di magico stesse per accadere. Lo psicoartista è l’ispirato e coltiva questo stato. Sosta nella suspance, porta al limite la tensione dell’attesa, architetta ad arte l’altrui naufragio, perché sa che la salvezza è al di là dello smarrimento. Ecco che l’interpretazione non viene più semplicemente proposta e spiegata, ma accade, attraversa il setting, lo bagna e lo rende fertile. In quell’istante la pioggia “diventa” le lacrime e le lacrime “sono” la pioggia, allo stesso modo, una “caduta” vale tutte le cadute. Ciò può avvenire in quanto la natura poetica dell’inconscio sovrappone gli elementi simili, dissolvendo le loro identità. E’ solo allora, che il simbolo riecheggia tuonante nell’interiorità, squarcia il tempo, va oltre lo spazio. E, animato, connette l’individuo all’eternità.



Dr. Roberto Ruga.





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