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Articolo pubblicato sul Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura
(nr. 9, Ottobre 2009)


Legami di sangue


(Estratto)

In questo articolo si passano in rassegna i vari tipi di legami di sangue: da quelli letterali, in senso stretto, che sono il legame genitoriale, fraterno e parentale, a quelli "culturali" come il legame di stampo mafioso, ma anche quelli costruiti psicologicamente come il legame con l'analista in virtù del transfert, il legame tra la psicologia considerata come "figlia" della filosofia, fino a considerare il particolare legame di sangue tra uno psicoanalista (psicologo o psicoterapeuta) e suo figlio. Si è cercato di definire le varie sfaccettature della simbologia che il sangue e il legame di sangue possono sottendere e svelare, con particolare riferimento al concetto di rinascita psicologica. Le interpretazioni proposte considerano sia una visione psicoanalitica, nella quale l'evento centrale è il complesso edipico, sia un approccio psicosomatico teso ad analizzare i significati simbolici legati al sangue e ai suoi "legami patologici". Un rilevante spazio è stato dato alla psicologia dell'eroe in grado di risolvere il legame di sangue in favore del suo sviluppo psicologico e della sua differenziazione. Dunque, "c'è sempre tempo per avere un'infanzia felice" poiché se io oggi, sono presente a me stesso e "sono" nel mio tempo, allora, e solo allora, potrò percepire ed accettare la mia infanzia come "necessaria" a ciò che sono diventato: persino un legame di sangue può essere suscettibile di essere decostruito e ricreato attraverso l'attribuzione di nuovi significati.


Articolo integrale
C’è sempre tempo
per avere un’infanzia felice
(Milton Erickson)




Vari tipi di legami di sangue

Legame e sangue. Un accostamento noto. Quello di sangue è il legame che sta all’origine, ancora prima che la coscienza individuale si sia potuta sviluppare. E’ appunto un legame genetico, fondante, a priori. In quel legame siamo gettati e non ci possiamo sottrarre. Non a caso basta spostare l’accento sulla “e” (légami) per mettere in evidenza l’aspetto vincolante del rapporto fondato su un legame di sangue. Ma non c’è bisogno di giocare con gli accenti per ricordarsi come il legame, ed in particolare quello di sangue, possa “istruire” la persona sul comportamento da seguire, come avviene ad esempio nel caso di un legame di stampo mafioso, in virtù del quale qualcuno, anzi molti, si aspettano comportamenti prevedibili e consoni dalla persona che ne è investita. Ma questo di stampo mafioso è un legame di sangue “improprio” perché indotto, come dire, artificiale, culturale. E il sangue non mente. Non accetta compromessi.
Vi è poi, un altro tipo di legame di sangue “indotto” nel senso di costruito passo dopo passo, e cioè nel tempo: il legame con l’analista. Il sangue, in tal caso è rappresentato dal transfert che appunto “lega” paziente e analista, ad un destino affettivo comune. Sicuramente momentaneamente, ma, −considerato che le analisi possono essere “interminabili”− forse per sempre. In tal caso, l’aspetto “chimico” viene sostituito e compensato dall’aspetto psicologico, vale a dire, la mancanza di un legame di sangue vero e proprio tra paziente e analista, viene colmata da una sostanza puramente psichica: la convinzione, da parte del paziente, che lui, l’analista sia “genitore”. E, convinzione, vuol dire legame.
Ecco che si va in analisi per essere “legati” e, nello stesso tempo per sperimentare un nuovo legame. E si va in analisi per coltivare, per attraversare quel legame dal quale, liberarsi, equivale a rinascere. La rinascita implica la (ri)definizione dei vecchi e anacronistici legami di sangue, attraverso un nuovo legame che con quelli ha molto a che fare in virtù di una riedizione chiamata transfert.
Dunque, nell’ambito del setting psicoterapico non si può parlare di legami senza far riferimento al meccanismo che svela come e perché quel legame venga costruito dal paziente, −con la complicità funzionale dell’analista−, proprio con quelle fattezze, che incarnano un sembiante chiamato “fantasma”. E i fantasmi, si sa, vengono dal passato. E’ proprio il passato che riattualizzandosi nella situazione presente tra paziente e terapeuta, crea l’occasione per il terapeuta di essere protagonista attivo all’interno delle dinamiche relazionali di quel paziente. E nasce, naturalmente, un legame di sangue.
Quante volte, da bambini ci è stata posta questa domanda: “di chi sei figlio?”. E’ una domanda che evidenzia come il legame sia garante di un necessario senso di appartenenza, che offre protezione e identità. Da adulti la nostra famiglia “naturale” si allarga, andando via via ad includere una nuova famiglia psicologica “scelta” in virtù di un riconoscersi, dettato dalle nostre inclinazioni e dalla nostra personalità. Ecco allora che nascono associazioni, organizzazioni, congregazioni e ogni sorta di gruppo (compreso quello psicoterapeutico) il cui collante è la sensazione dei membri di esserne parte utile. Anche nei gruppi aleggia il transfert. E crea legami, sovrappone fantasmi e fantasie, suscita proiezioni, permette visioni e convinzioni. In una sola parole, detta legge. Ecco, la logica dei legami segue la legge del transfert. Ed il transfert scaturisce dai legami di sangue posti all’ombra di quel nuovo sembiante che si impone come attuale e reale, ma che alberga in sé un antichissimo rapporto, quello genitoriale.



Essere o non essere figli?

Di chi sei figlio dunque? Una tale domanda può e deve essere trattata alla stessa stregua di un Koan il cui scopo è la ricerca della verità personale. E se c’è una ricerca è perché essa è divenuta necessaria.
Se si appartiene ad un gruppo religioso, la risposta sarà subito data: “sono figlio di Dio”. Se si è stati come me allievi di Aldo Carotenuto, la risposta suonerà così: “siamo madri e padri di noi stessi”. Ho detto prima madri e poi padri. Il padre insomma viene dopo, riguarda la conquista del territorio, laddove la madre “è” quel terreno che mi sostanzia, quel latte che mi fa “essere”.
L’analisi allora deve necessariamente destrutturate i vecchi legami di sangue che ci definiscono arbitrariamente, per liberare lo spirito creativo dell’individuo (ri)nato in un nuovo spazio. Più l’analisi va in profondità e più incontra la madre, ovvero il suo spazio. E lo ruba, lo sottrae contraendolo. Ciò avviene all’insegna di una sostituzione chiamata transfert, in base alla quale l’analista “ruba la scena” alla “madre”. E’ come se il paziente subisse una trasfusione. Ma quel sangue, scoprirà alla fine, deo concedente che non è come aveva creduto, il sangue dell’analista, ma il suo. Ora, la risposta può finalmente essere data: so di chi sono figlio.
Tuttavia, i legami e i legami di sangue non si spezzano mai. Il loro filo si può assottigliare, la loro intensità affievolire, ma travalicano il tempo e irriverentemente se ne fanno beffa. Ecco allora che ci viene in aiuto Jung suggerendoci un concetto essenziale che suona come un fortunato compromesso: “entrare in relazione con l’inconscio”. E nel nostro discorso l’inconscio è il sangue. Esso scorre silenzioso e ci nutre; insospettabilmente essenziale. Legami di sangue? Certo, legami inconsci. L’espressione legami di sangue, tradotta psicologicamente, vuol dire legami di natura inconscia. Legami che legano senza che la persona se ne renda conto. Un po’ come guidare un’automobile senza prestare attenzione a ciò che si fa in modo automatico. Proviamo a tirare in ballo un termine grosso: legami archetipici. Del resto gli archetipi si trovano nell’inconscio (collettivo). Allora un legame di sangue può essere considerato un legame di natura archetipica che ci narra un mito del quale noi, insieme alla nostra famiglia siamo i protagonisti. L’archetipo, è un po’ come una storia narrata all’infinito. Dunque, una leggenda, un mito, una fiaba o una favola. Ecco dunque che abbiamo la sensazione di far parte di una storia condivisa dall’umanità intera.
Ma così come il sangue è classificabile in gruppi sanguigni ben distinti tra loro, anche i legami di sangue si declinano in gruppi e sottogruppi definendo il senso di appartenenza per coloro che rientrano nel gruppo ed un senso di esclusione per coloro che ne restano fuori. Nel legame di sangue, ciò che è discriminante non è la personalità o la volontà della persona di far parte di quel “gruppo”, ma è il fatto inconfutabile di esser nato in quel gruppo che ne sancisce automaticamente l’appartenenza. Psicologicamente questo è un fallimento dell’individualità, laddove come dicevamo, l’individuo maturo sa scegliere il gruppo dal quale si sente rappresentato o che lo rappresenti, in virtù di un’ “affinità elettiva”. Laddove manca tale affinità, non essendovi scelta, l’individualità creativa tende ad essere sottovalutata o addirittura calpestata. Perché? Ce lo dicono i miti o semplicemente il linguaggio comune: “nemo propheta in patria”.
Ecco perché bisogna che l’uomo, se vuole maturare deve abbandonare la casa paterna e intraprendere un viaggio che lo condurrà “altrove” verso lidi in cui troverà sangue “altro”. E’ questo il solo modo attualmente conosciuto per evitare una sorta di incesto psichico che sarebbe inevitabile se letteralizzassimo, reificandola, la metafora del “legame di sangue”. Ma se una metafora è stata tacitamente e unanimemente promossa, vuol dire che ha una certa utilità. A chi è utile la nostra metafora? Ai padri, certamente. Alle madri, di conseguenza. Ai fratelli, ovviamente. E’ utile a non porsi domande. La metafora evita e risolve in sé le domande. Le domande riguardano il senso della vita, il cammino individuale, la differenziazione. La risposta preconfezionata che la metafora offre è invece rassicurante. Essa scoraggia la ricerca in quanto ci dice già “chi” siamo. Ci dice cioè che siamo i “figli” di quel sangue che ci è stato dato da altri. Ecco che la vena creativa viene frenata in ragione di un quieto vivere da salvaguardare. Incesto, dunque morte psichica, assenza di creatività. Legami di sangue, legami poco creativi. Del resto, la familiarità è spesso nemica della creatività in quanto ci spinge a considerare i problemi secondo la consueta, appunto familiare e prevedibile ottica. Ma se il problema è nuovo e implica nuove acquisizioni, ecco che la prevedibilità del ragionamento, ovvero il tipico e familiare modus operandi non basta più a risolvere la questione. E la questione è sempre l’Altro! Con la sua diversità psicologica, con il suo mistero. E’ proprio il senso del mistero, che a volte, suscita e permette legami. Non il sangue dunque, ma il mistero. Lo sanno bene certi psicoanalisti che utilizzano un fascinoso alone di mistero e di impenetrabilità, per ammaliare i loro pazienti. E questa è una buona cosa. Certo, aiuta il paziente a “svuotarsi” di sangue familiare per prepararsi ad una trasfusione. Ma prima dovrà essere “vuoto”. Il vuoto seduce chi soffre perché rappresenta un nuovo stadio rispetto al vecchio. Il nuovo “spazio” è comunque propedeutico allo sviluppo della creatività individuale. Ecco che allora il paziente è pronto per divorziare da un mito−archetipo che non nutre più, per sposarne uno nuovo, più flessibile, anche meno noto. Insomma, una storia tutta da scrivere, un racconto da narrare con parole nuove. E questo è eroico.



Chi è l’Eroe?

L’eroe è colui che abbandona l’agio, le comodità, la famiglia e mosso dalla sete di sapere e dalla curiosità parte e punta all’orizzonte. Gli piace l’orizzonte perché rappresenta un viaggio senza fine ed uno spazio “largo” poiché è tutto lo spazio possibile. L’eroe è l’artista del viaggio. Il viaggio è la sua arte. Viaggia anche il paziente al cospetto dell’analista eroico. Ed anche, si svuota, si dissangua e si riempie. Insomma pulsa. Quando l’analisi pulsa, resta viva. Da questo pulsare sgorgano nascite che diventano nuovo carburante per un viaggio senza fine.
Ma il viaggio, nella vita di Abele, si arresta per mano di suo fratello Caino. Legami di sangue, legami sanguinolenti. Non sempre il sangue unisce, lega, fa felici i protagonisti. Quel sangue non è garanzia di armonia e di unione, ce lo ricorda la Bibbia:

“Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere». Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.”


Il potere ed il possesso vengono, a volte, prima dell’unione fraterna. Secondo alcuni, il racconto di Caino e Abele è considerato una rappresentazione narrativa del contrasto tra la vita dei nomadi e quella degli stanziali. Ora, l’eroe è per sua natura nomade, anche se lo spazio psicologico che anela a possedere è dentro di lui, non è uno spazio fisico. E’ nomade dentro, ramingo, irrequieto, misfits. Così è l’analista eroico che contagia il paziente infondendogli la smania di una ricerca febbrile. E, soprattutto, il piacere di questa ricerca senza fine. Diciamo pure il demone. Ed è indemoniato Caino, ramingo senza pace. Ma Caino non è creativo, l’eroe invece si. Ecco la differenza: chi crea si salva dal senso di colpa. Ma cosa si crea? Si crea sapere. L’eroe crea sapere nuovo, e l’analista insieme al paziente creano un sapere rivolto, ribaltato, rivoluzionato. L’unione con l’alterità crea sapere, l’incontro d’anime crea sapere. Dunque trasforma. Si tratta pertanto di un sapere psicologico, che per definizione è trasformativo. L’eroe, se gli è dato di ritornare in patria, torna diverso.
Ora, che ne è del “fratello” dell’eroe? Resta in ombra, nessuno lo nomina, non se ne sa nulla. Ma nessuno è destinato per sempre a restare nell’ombra, dunque trama e tramando diventa un alter ego. Il tallone d’Achille dell’eroe è la sua ombra, anzi suo fratello “ombra”, vale a dire quel legame di sangue che non è mai stato definitivamente reciso. Una sorta di cordone ombelicale che ricorda all’eroe la sua origine umana, familiare, genetica.
Eroico allora può essere un anelito, che dura un tempo limitato. Eroico pulsare dunque, fatto di slanci creativi e di stasi, di mondi nuovi e di casa natia, di percorsi lontani e di riposanti pause. Equilibrio insomma. Equilibrio tra legami di sangue e legami altri.
Equilibrio, direbbe Jung, fa il paio con “relazioni”. Si tratta pertanto di trovare compromessi (termine freudiano) tra l’Io e l’Es che, a ben vedere, sono un po’ come due fratelli legati da un legame di sangue. Uno ha i piedi per terra, l’altro viaggia con la fantasia, il primo ama il controllo, l’altro lo vuole perdere. Ma sono legati tra loro come cavaliere e cavallo (dice Freud) e fanno un tutto−uno. Il loro segreto è l’armonia. La loro arte è l’armonia del movimento, altrimenti detta “cavalcata”.
Un legame di sangue testimonia la nostra origine, ci fa sentire portati da lontano, ma non per questo deve diventare un vincolo, anzi se valorizzato e relativizzato al tempo stesso, diviene un polo elettrico di quell’arte del pulsare che è tipica di uno spirito eroico. Pulsano, l’eroe e la sua creatività, di vecchio e nuovo.
Ma di chi è figlio l’eroe? E’ figlio della sventura e della sofferenza. Ma le elabora in modo creativo. Mantiene i suoi legami di sangue, ma non ne è schiavo, domina i suoi istinti creativi e se ne lascia condurre, subisce il fascino della follia ma non cede alle sue lusinghe. E’ equilibrato, a suo modo l’eroe perché dell’umano esprime il meglio, coniugando saggezza e sregolatezza, misura e libertà.



I legami di sangue degli psicologi e i loro sogni

E noi “psicologi” di chi siamo figli? E quali sono i nostri legami di sangue? I nostri parenti più stretti sono i filosofi, ma abbiamo un’anima pragmatica, ci piace essere all’opera. E come ci si comporta quando c’è di mezzo un legame di sangue? Ci si ricorda insieme (ad esempio) i bei vecchi tempi, si torna all’origine, nel paese delle madri, si festeggia con panettone e spumante e poi si riparte verso l’ignoto. Dunque, come un bambino nel parco periodicamente si gira a guardare la madre seduta su di una panchina, anche noi ritorniamo ad una “base sicura” e, fatto rifornimento emotivo, ripartiamo ancora. Persino Ulisse ritorna, lui che è uno che non ritorna mai.
Ecco che il fascino seducente del legame di sangue richiama all’origine, alla base. Ma nessun ritorno è simile al precedente poiché il tempo, che all’inizio è dalla nostra parte, ci dona navi nuove per affrontare mari sconosciuti. Mari profondi, mari rossi di sangue. E giungiamo ora a considerare la simbologia del sangue e del suo legame.
Per sua natura, il sangue sta in profondità, non è mai superficiale. E’ un po’ come il petrolio, si cerca “dentro”. E allora tocca entrare. Entra in primo luogo l’eroe, spetta a lui il primo passo. Edipo, ad esempio, compie inconsapevolmente quel passo e dunque non è un eroe, o, è un eroe inconsapevole di esserlo. L’eroe “sceglie” e va in profondità. Lì, in quel luogo originario, dimora delle madri, si bagna, ovvero attraversa il fiume sacro, che è anche un fiume creativo e compie il miracolo della trasformazione. Ecco la scena di un legame di sangue, anzi il legame originario. Freud ce ne parla lasciandosi ispirare dal mito d’Edipo. Noi, dal legame edipico che è “il” legame di sangue per eccellenza.
Diciamo allora che lo psicologo, psicoanalista o psicoterapeuta che dir si voglia, è l’esperto del legame di sangue, laddove il sangue rappresenta ciò che è vitale e profondo, direi “interno” e dunque “psichico”. Affiancato alla parola legame, il sangue specifica e qualifica quel legame, dicendoci quali sono le sue peculiarità. E noi, adesso, sappiamo che quel legame è originario, così come è materno.
L’eroe e dunque lo psicoanalista creativo Freud si confronta con la madre e dunque con le origini. Lui, che è il padre della psicoanalisi e lui, per il quale la psicoanalisi è da considerarsi un po’ come una madre. Insomma, i genitori “ritornano”, e allo stesso tempo si ritorna da loro. Perlomeno ci ritorna Freud.
La psicoanalisi analizza legami originari, ma cosa sogna? Cosa sognano gli psicoanalisti? A detta di Freud, che però non lo dice, perlomeno non esplicitamente, gli psicoanalisti sognerebbero di possedere le madri. E qui, si fa questione anche e non solo, delle madri putative o simboliche, e in primo luogo della Filosofia, cioè la madre della psicologia. E, Freud, questa madre l’ha posseduta.
Perchè gli psicoanalisti sognerebbero le madri? Perché bisogna capire e cogliere il loro segreto generativo, il loro saper essere creative. La psicoanalisi, insomma, non può essere creativa senza le sue madri. Ne sa qualcosa Dora, che ha ispirato e istruito Freud sul transfert. Ma all’epoca Freud non si comportò da eroe e (s)fuggì al rapporto. Non fuggì invece Aldo Carotenuto quando, (come spiego nel mio libro Aldo Carotenuto, psicologia di uno psicoterapeuta edito dalla Armando), trovatosi al cospetto della “madre” Sabina (Spielrein) scelse di darla alla luce, (ri)nascendo egli stesso insieme a lei. Perciò si nasce insieme, grazie ad un legame di sangue. Sabina è legata a Jung e a Freud e ora, finalmente, anche ad Aldo (Carotenuto).
Legami e simmetrie multiple portano a nascite sia in campo teorico che in campo prettamente umano. E, i legami di sangue nutrono per sempre. Ovvio che il cuore, la centrale del sangue, sia anticamente considerato la sede degli affetti. Quando il cuore si ferma, il sangue non circola e l’affetto si spegne. E ciò è inaccettabile per un eroe. Un eroe si identifica con il proprio sangue, metafora orale di nutrimento.
Ora, la psicoanalisi freudiana si basa sul complesso edipico irrisolto: il figlio che cerca e trova inconsapevolmente la madre. “Fiuta” per così dire la madre, in virtù dell’essere figlio e cioè geneticamente simile a lei, avendo entrambi lo stesso sangue. Ma una società costruita dando libero sfogo ad un tale incestuoso istinto, non potrebbe svilupparsi in quanto lo sviluppo implica il confronto col diverso, con l’alterità. Anche la psicoanalisi stessa ha intuito la profonda verità di tale necessità, così Freud, la “madre” Freud è stata più volte tradita da illustri esponenti del movimento psicoanalitico. Un tradimento necessario allo sviluppo di “voci plurime”. Ma un legame di sangue resta, non si spezza, e dunque al massimo può essere rimosso. Ci si imbatte così in quelle persone che negano le loro origini, e nel dirsi questa menzogna, negano le loro madri. La psicoanalisi ha la pretesa di risolvere questa negazione, di curarla e dissolverla. E, per far ciò il paziente deve riporre se stesso nelle mani di una nuova madre, l’analista, che con la prima ha qualcosa in comune: il sotteso e presunto desiderio di un accoglimento totale. Il paziente chiede di essere accolto totalmente. E questo, alla lunga corrisponde ad un incesto, nella misura in cui lo legherebbe per sempre tramite un “legame di sangue” − indotto − (d)all’analista.
L’analista allora propone una risposta “pulsante” che è anche una metafora di presenza/assenza, spingendosi al limite della rottura di quel legame, al limite del dissanguamento.
Si nasce insomma grazie alle ritmiche “contrazioni” e ai successivi “rilasciamenti”. E’ il mondo che “pulsa” insieme alla vita stessa. In questo orizzonte di significati, il legame di sangue è solo uno dei due poli senza i quali non ci sarebbe creatività, vita, individuazione.



Psicoanalisi della madre

Ora, la psicoanalisi cresce e diventa essa stessa madre, generando a sua volta legami di sangue con i propri figli. E’ dei legami di sangue con tale madre − in qualità di figlio − che cercherò ora di argomentare.
Che la psicoanalisi la si possa considerare “madre” è cosa pacifica. Ce lo suggerisce Giorgio Antonelli quando a pag. 12 di “Al di là della psicoanalisi, Otto Rank”, svela un aspetto insospettato del senso di colpa rankiano:

“La colpa è ineluttabile nella misura in cui si lega alla separazione e questa, ripetendosi in altrettanti atti di volontà, promuove, produce, porta fuori l’individuazione, così come, si potrebbe dire, la mano di Michelangelo porta fuori la forma dal blocco di marmo. La colpa non si origina a partire da un padre che proibisce, ma da una madre dalla quale è giocoforza separarsi. La madre dalla quale Rank si sta separando, al momento dell’elaborazione de Il trauma della nascita, è la psicoanalisi, la psicoanalisi più di Freud stesso.”


Sulla scia di questa rivelazione, il cui tema è l’individuazione, o, anche, la ricerca della propria identità, nel supporre la mia età di figlio, al cospetto della madre psicoanalisi, stabilisco arbitrariamente un’età psicologica adolescenziale. E l’adolescente, si sa, si ribella e rifiuta (ma dovremmo dire nega) quel legame di sangue che fino ad allora lo ha tacitamente e pacificamente nutrito. Capiamo quindi che la ribellione è strutturale ad una (ri)nascita. I rapporti con la madre psicoanalisi debbono dunque, per forza di cose, attraversare una fase conflittuale prima che ogni psicoanalista scopra il suo stile personale, ben distinguibile da quello genitoriale dei “maestri”.
In questa crescita che porterà un adolescente a divenire adulto, la ribellione costituisce un passaggio essenziale senza il quale non si dà rinascita. Traslato nella situazione analitica, questo processo assume le forme della nevrosi da transfert, un equivalente della fase adolescenziale. Al cospetto di un paziente−bambino, l’analista dovrà indurlo a desiderare la sua stessa crescita, facendogli assaporare il gusto di una sana e proficua ribellione, che solo dopo si trasformerà in riconoscimento delle proprie origini e del proprio legame di sangue.
Da quanto detto si deduce che i legami di sangue sono molteplici. Intanto c’è quello genitoriale, poi c’è quello col genitore simbolico che è diventato l’analista, e c’è anche quello con la madre e al tempo stesso “demone” psicoanalisi. Insomma, legami di sangue ubiquitari, persistenti, negati, rimossi, riscoperti e infine trasmessi.
E allora... “di chi sei figlio?” o, anche: “chi è tuo padre? Che lavoro fa?” Il desiderio di ridurre, di classificare per meglio definire e, in ultima analisi, controllare l’altro è forte in ognuno. E allora, se allarghiamo ulteriormente la nostra lente di ingrandimento e facciamo un simbolico salto dalla dimensione psicologica ad una dimensione più ampia, ovvero culturale, ci accorgiamo che padre e madre non è soltanto e semplicemente la psicologia, o la psicoanalisi, ma il Sapere stesso. Il sapere ultimo. Quando un libro che leggiamo, anche se per un solo istante, ci fa sentire in buona compagnia, allora possiamo riconoscere, perché viene sollecitata, una dimensione genitoriale, da cui scaturisce il legame di sangue. Ogni volta che si accende un sentimento di empatia con l’autore di un buon libro o l’ideatore di un pensiero intimamente convincente, allora siamo presi dal legame, ci identifichiamo e dunque proiettiamo. La proiezione è una modalità per creare nuovi legami di sangue. Ma, ovviamente, questo vale solo nell’universo psicologico, nella realtà psichica appunto, laddove però, ciò che si presume esista, produce i suoi concreti effetti.
E’ per questo che i legami di sangue “psicologici” o “psicologizzati” sono soggettivi e relativi, al cospetto di quelli reali e genetici che, invece, lasciano poco spazio alla fantasia, alla proiezione appunto, poiché sono indiscutibilmente già dati. Pensiamo ad esempio al legame tra gemelli. Costantemente evidente, questo legame impone all’identità e allo “psichismo” dei soggetti uno sforzo supplementare: quello di elaborare e superare la strutturale conflittualità fraterna, su piani diversi e contemporanei, a differenza di ciò che capita a fratelli che hanno una differente età. I gemelli materializzano quella che si potrebbe chiamare la “simbologia dello specchio”, la vivono fisicamente e dunque combattono, apparentemente ad armi pari, una guerra per la supremazia della terra “madre”.
La madre, del resto, suo malgrado, finisce inevitabilmente per preferire uno a scapito dell’altro, un po’ come ognuno di noi sceglie inconsapevolmente, fin da principio, la mano con cui scrivere. Se la competizione fraterna slitta verso modalità nevrotiche, il latte materno potrà arricchirsi (o svuotarsi) di emozioni e fantasmi di diversa valenza. Ecco allora che il sangue, oggetto del nostro discorso sul legame, diviene anche un equivalente simbolico di quel latte materno, ora offerto con amore, ora negato, dunque assente e quindi malevolmente presente. Poiché nella psicologia infantile non esiste ancora il concetto di assenza vera e propria, questa, si trasforma in presenza maligna, che “uccide”: il latte assente diventa latte “inquinato” che contamina il corpo−psiche del bambino. Siamo ormai in un versante psicotico, poiché viene messa in discussione l’esistenza stessa dei bisogni del bambino e dunque la sua esistenza come corpo−psiche.
Non sarà improbabile che il sangue “avvelenato” o anche “contaminato” dia luogo successivamente a patologie cardiache e dell’apparato cardiocircolatorio, che in una logica psicosomatica, traduce il conflitto sottostante. E, del conflitto non se ne può fare a meno. Jung, con un processo di derivazione, finisce per chiamarlo complesso, dandone un’accezione più vasta. Ma tale termine è già presente agli albori della psicoanalisi, dove troviamo il complesso edipico. Il complesso edipico presuppone un conflitto tra ciò che vorremmo (inconsapevolmente?) fare e ciò che non potremmo fare. E tale conflitto−complesso riguarda sia il bambino che il genitore. Riguarda insomma una coppia e dunque un legame di sangue. La psicoanalisi, in un certo senso, nasce da quella coppia incestuosa che si erge in veste di universo significante per ogni forma di patologia che si trovi a percorrere quello spazio. E’ come se qualunque patologia, venisse paragonata ad una navicella spaziale che viaggia in uno spazio curvo (e chiuso) che come un buco nero la risucchia verso significati prestabiliti. Insomma il senso è già dato. E quel senso è l’unione incestuosa. Tale unione, ribadisco, si fonda − nel nostro discorso − sulla simbologia del sangue e costituisce il nucleo di ogni nevrosi. Il sangue, soprattutto in tal senso, rappresenta “il” legame, cioè un legame nucleare, vale a dire che sta all’origine. Ma, chiediamoci: “chi” si trova all’origine? All’origine si trova la coppia incestuosa che si nutre di se stessa, in quello spazio chiuso che riflette verso l’interno ogni tentativo di creare significati “altri”.
In questo mondo paradisiaco, ma povero e narcisistico, si insinua un volto e un nome (come suona il titolo di uno dei paragrafi di “le lacrime del male” di Aldo Carotenuto). E quel volto non può che essere quello dell’altro, dell’analista prima e di una ulteriore, riconosciuta e apprezzata individualità, dopo.



La nascita di un eroe

Il mondo è psicologicamente vastissimo e questa è la felice scoperta di chi, ad analisi terminata guarda con occhi nuovi quello spazio “aperto”, oltre o “al di là” di qualsiasi “legame di sangue”.
Ecco che quando lo spazio si apre, la meraviglia incanta l’osservatore divenuto ormai uomo. E’ questo il momento in cui l’eroe ritorna indietro, cioè riemerge trasformato, dalla necessaria discesa incestuosa all’origine, cioè nella madre. Le leggi della “fisica− psicologia” vengono stravolte, laddove da uno spazio chiuso si accede ad uno spazio aperto, per così dire “parallelo” o “multiplo” rispetto al primo. E l’universo dei significati personali, ovviamente, cambia. Cambiano ad esempio i desideri della persona, che da falsi perché “indotti”, cioè culturalmente programmati da un ambiente ristretto e ripiegato su se stesso (curvo), diventano ora “autentici” sgorgando dall’interno.
E’ questo il momento in cui il legame di sangue muta poiché si aggiunge nuovo sangue a quello vecchio: nasce una nuova generazione. I legami di sangue mutano grazie ad un rapporto che diviene possibile in virtù di una discesa alle origini e di un momentaneo incesto. Il tempo personale scandisce tale impresa, trasformando le caratteristiche del sangue stesso, che muta. Il tempo, si sa, cambia le cose. Cambia tutte le cose.
Ora, il tempo sembrerebbe esserci dato, mentre il legame assumerebbe le sembianze di una scelta. In realtà possono entrambi essere una scelta nella misura in cui è l’Io che sempre “decide”. E’ la decisione che fa divenire quel tempo, tutto il tempo. Vale a dire, nel momento in cui io mi lancio in un’esperienza che ritengo significativa e che poi mi cambierà, vuol dire che ho maturato un atteggiamento propositivo, assertivo e creativo che mi fa essere soggetto del mio tempo, protagonista attivo. E’, naturalmente, questo, l’atteggiamento eroico.
L’Io che decide è certamente vincolato e le sue decisioni non sono assolutamente libere e svincolate ad esempio dal passato: dai suoi legami di sangue. Ma, e qui sta il punto, l’atteggiamento eroico coltiva e si fonda su una “struttura strutturante” somigliante ad un “archetipo del legame” che dà senso all’intera esistenza eroica. Considerare il legame come priorità assoluta, prima ancora delle certezze dell’Io, significa avere un atteggiamento eroico. L’eroe infatti è noncurante del rischio, beffardo nei riguardi della morte. Sprezzante e temerario, egli ha un solo obiettivo: l’altro. L’altro viene prima, al primo posto. L’altro è colui che alimenta la vastità della psicologia eroica.
Se volessimo scegliere un’immagine orale come equivalente di questo discorso, potremmo immaginare l’eroe che si abbevera col sangue dell’altro. Dunque un’immagine che vede come protagonista un vampiro. E qui torniamo al sangue e ai legami di sangue. Si abbevera l’eroe a quel sangue sconosciuto e lo fa suo. Permette che quel sangue “entri” dentro di lui. Non sono a conoscenza di miti in cui l’eroe riceve e dà anche il suo sangue, ma se il mito manca, potremmo inventarlo e, in tal caso, sarebbe un mito moderno: l’eroe che offre il suo sangue e acconsente ad uno scambio che, a questo punto, sancisce una “unione di sangue” e dunque un nuovo legame di sangue.
In tal senso una psicoterapia eroica potrebbe essere quella fatta “col sangue”. Inutile sottolinearlo, il sangue rappresenta l’anima. Ora, analisi e sangue, nel linguaggio comune e nell’immaginario collettivo sono legati insieme da una prassi medica: la nota “analisi del sangue” che ci dice come stiamo, ovvero le condizioni della nostra salute. Non è un caso. Il sangue non mente e parla di noi. Potremmo dire che esso è un equivalente, un sembiante della nostra psiche. Ne è l’aspetto materiale, “liquido”.
Ora, cosa propriamente fa l’analista eroico al cospetto di un paziente? Lo contamina. Ovvero lavora sui falsi desideri intaccandone i presupposti. Induce il paziente verso desideri autentici, riscoprendo la sua indole eroica. E’ un’operazione che richiede fede ed avviene per “contagio” cioè presuppone una “vicinanza” e diremmo a questo punto, una “trasfusione”. Ciò di cui si deve nutrire il paziente è dell’atteggiamento affettivo che ha l’analista verso il dolore, verso il rischio e verso il mistero dell’altro in genere. Deve acquisire insomma, anche lui, la convinzione −al limite del delirio di onnipotenza−, di essere “immortale” e di potersi permettere il capovolgimento creativo del proprio sottostante complesso di inferiorità (strutturale ad ogni essere umano). Deve avere fede, però, l’apprendista stregone. Fede, direi, nella magia. Infatti, in analisi si tratta di trasformare le proprie parti “mostruose” sulla base di un esempio, che al paziente viene dato di persona dall’analista. Ecco cosa scrivevo nell’introduzione ad Aldo Carotenuto, psicologia di uno psicoterapeuta, a pag. 14:

“Così è stato per me e questa è la mia personale verità sull’analista AC: un genio che nonostante avesse una parte “mostruosa” albergante in sé, non solo non la nascondeva ma coraggiosamente riusciva sovente ad addomesticarla, e, dandoti l’esempio di persona, ti conduceva, “deo concedente” (come egli stesso amava dire), a confrontarti e a dialogare col tuo demone, regalandoti la rara quanto preziosa convinzione di potertelo permettere. A te veniva solo richiesto di tollerare (un’apparente?) solitudine. Eroicamente, certo.”


L’analisi eroica sottende dunque una motivazione inconscia legata alla scelta stessa della professione di analista, basata non solo su di un conto aperto con l’inconscio, ma essenzialmente sull’esigenza di autoaffermazione e di immortalità che è tipica di un eroe. In una analisi eroica vi è di scena l’incredibile, in quanto l’analista è così intimamente convinto del talento e delle potenzialità inespresse del paziente, tanto da riuscire a plasmare la visione che questi ha di se stesso, non con le parole, ma semplicemente con un atto di muta fede. Affinché ci sia un’analisi eroica, è necessario che l’analista sia lungimirante e che tragga un particolare godimento nel ricercare ed estrarre dal materiale umano su cui opera, il prezioso elemento “pulsante” e creativo. E, ancora:

“L’analista eroico è uno che ha fede estrema nella vittoria, nel trionfo del nascosto, nel risveglio di ciò che è sopito in fondo al paziente, il quale vive necessariamente momenti di stupore e di meraviglia. E’ allora che il terapeuta cavalca quell’ incredulità e contro ogni ragionevole e realistica previsione, crede nell’avvenire di un nuovo e personale progetto del suo paziente: sta tutta qui la fede.”


Possiamo allora affermare che la condizione di plastica progettualità suscitata nel paziente si coniuga con lo spirito eroico e temerario del terapeuta, dando vita all’inaudito. E’ in questi momenti che il paziente percepisce in pieno un senso di esaltazione, quasi di onnipotenza che gli fa sembrare ogni impresa come possibile.



La nevrosi da transfert come cura (?)

Se l’analista è percepito come affidabile, accogliente ed empatico, il paziente può permettersi di sperimentare quel completo abbandono della ragione, che gli consente di sfiorare il limite della follia, per conquistare solo dopo, la saggezza. Naturalmente, anche l’analisi come del resto la vita stessa, “pulsa”. Quindi una tale condizione edenica di empatica accoglienza non si può e non si deve protrarre oltre un ragionevole limite. Ne andrebbe di mezzo il desiderio del paziente di differenziarsi e di staccarsi dalla “madre analisi”. Così entra in scena un desiderio “archetipico” dell’analista, congenito all’analisi stessa. E, cosa desidera un buon psicoterapeuta per i propri pazienti? Che spetti loro la giusta dose di angoscia, ovvero la loro personale −perché fatta su misura− nevrosi da transfert.
L’analista, conosce il punto di rottura di ogni anima e si spinge fino al limite della sopportazione, sapendo che più elevato è il rischio, più alta sarà la ricompensa, ovvero la rinascita. Adesso l’analisi “pulsa” e il legame con l’analista diventa sempre più simile ad un legame di sangue, in virtù appunto del suo “pulsare”, che viene monitorato dal terapeuta, attento a calibrare su misura per ogni paziente, la sua dose di angoscia che ne smantella l’Io, creando così il vuoto fertile, un preludio ad ogni rinascita. Ecco che si va in analisi per sperimentare angoscia sotto controllo, angoscia programmata.
Possiamo considerare questa forma di angoscia come una sorta di vaccino psicologico che andrà a creare nel paziente degli anticorpi psichici in grado di far fronte a “influenze esistenziali”, che fanno parte della vita di ciascuno di noi. La metafora sanguigna allora ci sembra particolarmente appropriata ad accogliere concettualmente le evoluzioni narrative del percorso analitico, spiegando meccanismi insiti e dal carattere sfuggente, all’analisi stessa.
Bene, stando ad una concezione simbolica della malattia e assumendo che l’inconscio parla attraverso il corpo (dicendo quelle cose che l’Io non direbbe mai), da un punto di vista psicosomatico il sangue rappresenterebbe simbolicamente “il punto debole” sul quale si scaricherebbero le situazioni stressanti o problematiche. Il sangue non mente. Il sangue racconta. Legami di sangue psicologicamente irrisolti ed evolutivamente “bloccati”, o “congelati”, raccontano la propria personalità attraverso i sintomi. Ecco che, ad esempio, una malattia a carico dell’apparato cardiovascolare suggerisce l’esistenza di conflitti a carico della sfera degli affetti, laddove l’infarto potrebbe essere letto come una sorta di “strangolamento” dei sentimenti e degli “investimenti” verso il mondo e verso l’“estraneo”. Se, allora, i legami di sangue vincolano, legano e obbligano, diventa necessario per la persona che se ne sente posseduta, confrontarsi con una propria “verità del cuore”, piuttosto che con quella “biologica” della famiglia di appartenenza. Se poi consideriamo che un tratto di personalità peculiare del soggetto iperteso sarebbe la difficoltà (di natura critica) di fronte alla necessità di esteriorizzare i vissuti, i desideri, le tensioni, l’aggressività, gli istinti, allora potremmo ragionevolmente supporre che il sistema circolatorio potrebbe divenire un “contenitore” in cui rinchiudere i vissuti psicologici sentiti come intollerabili per la coscienza; sia un luogo dove esprimere tali sentimenti ostili o i reconditi e repressi impulsi aggressivi. I legami di sangue psicologicamente irrisolti e anacronistici, narrano dunque storie di aggressività mal gestita che viene somatizzata nell’ipertensione, espressione di una più ampia personalità la cui peculiarità è quella di creare legami improntati al possesso, all’assoggettamento e al gioco di potere.



Mio padre fa lo psicoanalista...

Ora, e se alla domanda: “di chi sei figlio?”, la risposta suonasse così: “sono figlio di uno psicoanalista”? Ecco, infine, un particolare legame di sangue... di natura psicologica! La sua particolarità è data dall’intensità, dal ruolo e dalla risoluzione giocata dal complesso edipico. Facciamo un esempio illustre: il caso di Anna Freud e di suo padre Sigmund Freud che a partire dal 1918 è stato il suo analista. Freud analizzava la figlia tutti i giorni dopo cena, per quattro anni e per sei giorni alla settimana. Commenta al proposito Ottavio Rosati in “Forme del sapere in psicologia” a pag. 45:

“Dal momento che il transfert arrivava allo stesso luogo da dove partiva, questa analisi contribuì a condizionare tutta la vita di Anna che sarebbe rimasta sempre accanto al padre, come “degna figlia”. Eppure Freud non sospettò mai di aver intenzionato il destino di Anna.”


Infatti Freud scriverà di non essere riuscito a liberare la figlia Anna dalla sua figura, lamentandosi che ella non avesse una vita sessuale.
Il successivo groviglio familiare che si venne a creare tra Freud, divenuto analista sia della figlia Anna e sia della sua (di lei) compagna e, tra Anna stessa, ormai analista dei figli della sua compagna, è senza precedenti. Insomma, Freud il padre della psicoanalisi, l’ideatore della metafora edipica, non riuscì a risolvere il complesso paterno di cui evidentemente soffriva la figlia. E ciò probabilmente è accaduto in virtù di un suo dare “troppo” alla figlia. Quel troppo Anna non lo ha potuto metabolizzare e ne è stata “intossicata”, “contaminata”.
Ora, “troppo” seguendo il principio dell’enantiodromia, può significare anche “troppo poco” e ciò sarebbe conseguenza, ad esempio, di un padre assente o poco presente nella vita del figlio. E veniamo alla nostra (ormai retorica) domanda: “cos’hanno nel sangue i figli degli psicoanalisti?”. Stando all’esperienza di Freud con Anna, la risposta potrà sembrare “stupefacente” laddove ad una assenza, ovvero ad una presenza “ingombrante” si risponde con una fuga dalla realtà, o con un ripiego in una realtà sostitutiva e fittizia, (simbolo, in tal caso, di fedeltà estrema al padre).
Insomma, il sangue dei figli degli psicoanalisti rischia di essere troppo “pieno” o troppo “vuoto”. In ognuno dei due casi si fa comunque questione di una inappropriata “presenza”, cioè di troppa (o troppo poca) “sostanza”. E, inoltre, la sostanza non sembra quella giusta. Vi è per così dire una “overdose” non smaltibile dalla psiche. Così, il legame di sangue tra psicoanalisti e figli sembrerebbe essere particolarmente suscettibile alla dimensione del pieno−vuoto, che dalla “sostanza” rimanda all’ “essere”. Se di “essere” si tratta, e, considerato che è col verbo essere che si chiede: “di chi sei figlio?”, allora è col verbo essere che bisogna rispondere. E qui concludo lasciando la parola a Gibran il profeta:

“I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per se stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi,
E benché vivano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Poiché essi hanno i loro pensieri.
Potete dar ricetto ai loro corpi ma non alle loro anime,
Poiché le loro anime dimorano nella casa del domani, che neppure in sogno vi è consentito di visitare.
Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercate di rendere essi simili a voi.
Perché la vita non va mai indietro né indugia con l’ieri.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive sono scoccate.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e vi piega e vi flette con la sua forza perché le sue frecce vadano veloci e lontane.
Fate che sia gioioso e lieto questo vostro esser piegati dalla mano dell’Arciere:
Poiché come ama la freccia che scaglia, così Egli ama anche l’arco che è saldo.”


Queste di Gibran sono parole terapeutiche, parole che curano. E curano perché esse analizzano. Ecco a cosa serve l’analisi: l’analisi serve ad analizzare, cioè a dare parole, a nominare concetti nebulosi, sciogliendone l’oscurità. Applicare questo concetto alla terapia significa creare una nevrosi da transfert ad arte, cioè su misura per quel determinato paziente, e quindi trovarsi in una posizione privilegiata d’osservazione del suo mondo interiore, delle sue trame e dei suoi meccanismi, per poi dare un nome a quei “fantasmi”. Nominare, dunque è di per se stesso terapeutico. Non sarà, poi, una parola a risolvere la nevrosi da transfert del paziente, ma la renderà affrontabile e dunque foriera di vita. Poiché la nevrosi è espressione di un desiderio di nuova vita. E se c’è stata una nevrosi da transfert, ciò è potuto accadere per via di un transfert della nevrosi stessa che è “migrata” altrove. E’ questa una prova dell’esistenza di plasticità ed elasticità psicologica nel paziente. E che succede dopo la nevrosi da transfert? Cioè dopo un percorso psicoanalitico? Succede che gli uomini operano tagli, ovvero dimenticano. Dimenticano in primo luogo la madre. Va da se allora che alla celeberrima domanda: “cosa vogliono le donne?” una risposta possibile sia: vogliono che i loro uomini dimentichino la propria madre, vogliono, per così dire, l’esclusiva. E l’eroe, certo, è uno che sa dimenticare la madre. Anzi, vive all’insegna dei tagli e delle dimenticanze. Perché, potremmo dire, è uno che a suo tempo ha navigato la nevrosi da transfert. L’ha cavalcata. Ed è proprio questo che lo apre alle conquiste, sia degli spazi che dei cuori.



Legami divini

Poniamoci ora un’ultima e definitiva domanda: qual è il legame dei legami? Ovvero, il legame “assoluto”? Il legame assoluto è il legame divino. Il legame col divino. Qui il sangue si tramuta in spirito e il legame diviene garante di salvezza. E il tempo diventa tutto il tempo: l’eterno. L’infinito. Bene, anzi, da un punto di vista psicologico, male. Male perché a quel legame non si applica la legge di Gibran e quel legame non si rompe. E non rompendosi si trasforma in un continuo delegare la propria felicità a qualcuno. Il che per molti va bene. Non però per l’ Eroe.
A suo modo Cristo è un eroe, un eroe predestinato, nella misura in cui nasce già “separato” dalla madre. Intendo separato “psicologicamente”. Infatti, Maria è considerata “vergine” (da intendersi psicologicamente). Vergine significa qui, nel discorso che porto avanti, senza legame di sangue. Perché? Perché non ne ha bisogno: il legame è extracorporeo. Appunto divino. Eppure, finchè Gesù resta −anche uomo, il sangue entra nella sua vita, con tutta la simbologia che rimanda al legare. Di quel corpo-sangue (ci) si libera solo alla fine. Alla fine resta lo spirito: l’anima. Ecco il compito dello psicologo: fare anima. Ma, quando, propriamente si fa anima? L’anima si fa -per dirla con Giorgio Antonelli- quando spira il “vento forte”.
Un esempio di “vento forte” lo troviamo in “La scala che scende nell’acqua” quando a pag. 117 e 142, nel sogno 33, Ligeia, la paziente di Aldo Carotenuto racconta di trovarsi su una barca larga, forte, semplice, come le barche dei pescatori. La barca procede a vela su di un fiume largo, guidata da un uomo forte e sicuro di sé.
Ora, se c’è un vento forte, che gonfia una vela, questa può ben rappresentare la capacità della paziente di muoversi e di procedere da sola. Esso testimonia e racconta di una terapia nella quale è stato di scena, appunto, lo spirito -l’anima- che inspirando arte e poesia nel setting ha generato l’insetting. E l’insetting, cioè la terapia che diventa arte, si muove sempre verso la liberazione del paziente dai suoi “legami di sangue”.
Ma, nondimeno, se esiste un vento forte, può esservi anche un vento “debole” e, all’analista attento, diciamo pure eroico, può manifestarsi nei sogni. Questa volta, dell’analista stesso. E l’analista è ancora una volta Aldo Carotenuto, che al cospetto di una sua paziente che le chiede di raccontarle un sogno, a pag. 45 di “La mia vita per l’inconscio” col tono più naturale di questo mondo, le risponde:

“Su una zattera in un mare in tempesta, c’è una naufraga, molto bella, scarmigliata, terrorizzata perché tutt’intorno alla zattera la assedia un branco di squali, i musi che sporgono fuori dall’acqua affilati come coltelli. C’è uno squarcio di luce tra le nubi, e il mare si placa; ma, mi chiedo, chi placherà gli squali?”


Poi, con filosofia continua:

“E qui il sogno si chiude, o almeno si chiude il mio racconto. La paziente mi guarda con aria interrogativa, poi si stringe nelle spalle: “Embè? Tocca a te, no? Non è il tuo mestiere, quello di salvare i naufraghi?”. “Sì, in qualche modo lo è...”. E qui mi sono fermato. Potevo dirle che, almeno nel sogno, non c’era alcuna speranza che fossi io a salvarla, perché io ero uno di quegli squali?”


Il sogno mette in luce una straordinaria onestà intellettuale dell’analista in veste di scrittore e una provvidenziale permeabilità tra conscio/inconscio che consente di contattare dimensioni profonde, tradotte in immagini e ritenute. Inoltre, il sogno a mio avviso molto didattico, istruisce sui pericoli e sui rischi del mestiere, ma allo stesso tempo indica la strada auspicabile. E la strada, parafrasando Gibran, mi suona così: i pazienti non sono i nostri pazienti...
Qui, un tema affine può essere il lasciare andare. Il lasciare andar via un paziente, liberandolo. Nella terapia, tutto deve andare verso il “mare aperto”, gli spazi ampi, laddove i legami di sangue si sciolgono. L’analisi, soprattutto, li scioglie.
Nella sua ultima seduta, un paziente mi chiede se è pronto per concludere il trattamento. Gli sorrido e annuisco. Vedo nei suoi occhi un moto di gioia e di libertà: s-legami. Vento forte.



Dr. Roberto Ruga.





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